Miscellanea:
articoli, presentazioni, testi critici
Altrove, mostra personale di Giorgio Vallorani
MANCASPAZIO II - Nuoro
Tutte le opere di questa mostra sono un nuovo capitolo della ricerca eclettica di Giorgio Vallorani, nati con leggerezza (senza essere superficiali come ci invitava Italo Calvino), segnano la sperimentazione di un nuovo processo esecutivo che mette in discussione i consueti metodi della pittura. L'effetto è una combinazione tra sistemi di progettazione digitale e la riscoperta artigianale del fare pittorico.
Apparentemente di facile e piacevole lettura, queste opere diventano, a una visione più attenta qualcosa di più intrigante e complicato, che gioca su una raffinata dialettica fra destrutturazione e strutturazione del linguaggio della rappresentazione visiva.
Sulla traccia dell’invenzione di Ugo Nespolo che per primo ha praticato la tecnica del “puzzle” come forma artistica spiazzante e sorprendente, le opere prendono forma dall'autentico piacere di disegnare, un disegno agile e impetuoso, caratterizzato da un segno vivace e forme sintetiche elaborate sulla tavoletta grafica. Le rappresentazioni sono ricomposte a mosaico con frammenti sagomati in legno di varie forme, ma ciò che appare interessante non è il gusto per la complessità degli incastri, quanto il fascino visivo della combinazione dei singoli elementi rifiniti con esuberanza cromatica. L'originale processo delle composizioni è animato da una divertita vena ludica che rievoca le forme dell'esperienza creativa di Fortunato Depero. L'aspetto giocoso da artista-artigiano che scombina e rimonta i suoi disegni inoltre è accompagnato da una rigorosa attenzione per le cromie, un'attitudine che deriva dal mestiere di illustratore che Vallorani esercita da tanti anni per The Walt Disney Company.
Lo stile personale di Giorgio Vallorani è proprio la capacità di raccontare le sue storie con briosità coloristica, le rappresentazioni sono una collezione di gesti, espressioni e situazioni che prendono vita in relazione con l'osservatore e diventano un'opportunità per far nascere nuove storie. L'artista ama usare l'immenso repertorio delle immagini esistenti come fonte di ispirazione, i soggetti, trasfigurati e reinventati con una sottile cifra surreale, a tratti onirica e fantastica, sono pretesti narrativi per invitare il pubblico a percorrere un proprio percorso di suggestioni, immergendosi in un’esperienza di riflessione oppure liberamente immaginativa.
Apparentemente di facile e piacevole lettura, queste opere diventano, a una visione più attenta qualcosa di più intrigante e complicato, che gioca su una raffinata dialettica fra destrutturazione e strutturazione del linguaggio della rappresentazione visiva.
Sulla traccia dell’invenzione di Ugo Nespolo che per primo ha praticato la tecnica del “puzzle” come forma artistica spiazzante e sorprendente, le opere prendono forma dall'autentico piacere di disegnare, un disegno agile e impetuoso, caratterizzato da un segno vivace e forme sintetiche elaborate sulla tavoletta grafica. Le rappresentazioni sono ricomposte a mosaico con frammenti sagomati in legno di varie forme, ma ciò che appare interessante non è il gusto per la complessità degli incastri, quanto il fascino visivo della combinazione dei singoli elementi rifiniti con esuberanza cromatica. L'originale processo delle composizioni è animato da una divertita vena ludica che rievoca le forme dell'esperienza creativa di Fortunato Depero. L'aspetto giocoso da artista-artigiano che scombina e rimonta i suoi disegni inoltre è accompagnato da una rigorosa attenzione per le cromie, un'attitudine che deriva dal mestiere di illustratore che Vallorani esercita da tanti anni per The Walt Disney Company.
Lo stile personale di Giorgio Vallorani è proprio la capacità di raccontare le sue storie con briosità coloristica, le rappresentazioni sono una collezione di gesti, espressioni e situazioni che prendono vita in relazione con l'osservatore e diventano un'opportunità per far nascere nuove storie. L'artista ama usare l'immenso repertorio delle immagini esistenti come fonte di ispirazione, i soggetti, trasfigurati e reinventati con una sottile cifra surreale, a tratti onirica e fantastica, sono pretesti narrativi per invitare il pubblico a percorrere un proprio percorso di suggestioni, immergendosi in un’esperienza di riflessione oppure liberamente immaginativa.
Fondazione Bartoli-Felter promuove presso lo spazio espositivo Temporary Storing di Cagliari la mostra personale di Giorgio Vallorani a cura di Marco Peri. L’artista espone alcune opere realizzate tra il 2020 e 2021 che presentano la sua ricerca visiva più recente. L'inaugurazione sarà giovedì 10 giugno 2021, a partire dalle ore 18,30, presso TEMPORARY STORING, Via XXIX Novembre 7, Cagliari.
Nota di presentazione:
“I temi delle opere di Giorgio Vallorani sono suggestioni tratte dalla realtà, gente comune, scene dell’attualità, paesaggi umani di grande impatto espressivo. I soggetti sono animati da un segno grafico essenziale che richiama il fumetto, esaltati da un forte dinamismo e da un cromatismo vivacissimo, che conferisce una speciale forza emotiva alle grandi composizioni.
Il risultato sono storie percorse dalla vitalità dei corpi e dei gesti, ambienti che coinvolgono lo spazio dello spettatore in un’atmosfera carica di sentimenti, in cui fantasia e realtà si intrecciano.
Ogni opera nasce come un bozzetto grafico sull’iPad, una serie di appunti visivi caratterizzati dall’immediatezza, che Vallorani rielabora progressivamente con il linguaggio fluido del digitale, fino a raggiungere la composizione desiderata. L’ultima fase del processo artistico prende forma su numerosi fogli di carta, stampati e montati sulla tela come in un grande collage. L’artista interviene infine con i pennelli per completare le scene di dettagli e sfumature, conferendo a ogni storia una profondità luminosa e materica. Questa singolare tecnica mista costituisce un elemento stilistico di Vallorani, l’originale processo esecutivo è infatti una sintesi tra l’attitudine che caratterizza il suo percorso professionale di digital artist, e l’uso concreto dei pennelli come ai tempi della formazione presso l’Accademia di Belle Arti.
L’universo culturale di riferimenti di cui si nutre l’immaginario espressivo di Vallorani include il linguaggio realistico intriso di pathos, così come la vitalità esuberante e colorista che animano i dipinti di Guttuso, oppure è possibile rintracciare nelle linee ferme e decise di alcuni gesti un richiamo al furore delle scene di Guernica di Picasso. Sarebbe tuttavia riduttivo classificare questi riferimenti culturali come semplici citazioni. Non c’è una volontà di rendere omaggio, perché il cammino che porta all’espressione individuale di ciascun artista è sempre costellato di rimandi più o meno espliciti ai tanti maestri e artisti che si sono frequentati. La sensibilità di Vallorani trasfigura temi e soggetti a lui cari con un punto di vista personale che si caratterizza per autentica originalità, una cifra stilistica matura benché in continua evoluzione”.
Marco Peri
“I temi delle opere di Giorgio Vallorani sono suggestioni tratte dalla realtà, gente comune, scene dell’attualità, paesaggi umani di grande impatto espressivo. I soggetti sono animati da un segno grafico essenziale che richiama il fumetto, esaltati da un forte dinamismo e da un cromatismo vivacissimo, che conferisce una speciale forza emotiva alle grandi composizioni.
Il risultato sono storie percorse dalla vitalità dei corpi e dei gesti, ambienti che coinvolgono lo spazio dello spettatore in un’atmosfera carica di sentimenti, in cui fantasia e realtà si intrecciano.
Ogni opera nasce come un bozzetto grafico sull’iPad, una serie di appunti visivi caratterizzati dall’immediatezza, che Vallorani rielabora progressivamente con il linguaggio fluido del digitale, fino a raggiungere la composizione desiderata. L’ultima fase del processo artistico prende forma su numerosi fogli di carta, stampati e montati sulla tela come in un grande collage. L’artista interviene infine con i pennelli per completare le scene di dettagli e sfumature, conferendo a ogni storia una profondità luminosa e materica. Questa singolare tecnica mista costituisce un elemento stilistico di Vallorani, l’originale processo esecutivo è infatti una sintesi tra l’attitudine che caratterizza il suo percorso professionale di digital artist, e l’uso concreto dei pennelli come ai tempi della formazione presso l’Accademia di Belle Arti.
L’universo culturale di riferimenti di cui si nutre l’immaginario espressivo di Vallorani include il linguaggio realistico intriso di pathos, così come la vitalità esuberante e colorista che animano i dipinti di Guttuso, oppure è possibile rintracciare nelle linee ferme e decise di alcuni gesti un richiamo al furore delle scene di Guernica di Picasso. Sarebbe tuttavia riduttivo classificare questi riferimenti culturali come semplici citazioni. Non c’è una volontà di rendere omaggio, perché il cammino che porta all’espressione individuale di ciascun artista è sempre costellato di rimandi più o meno espliciti ai tanti maestri e artisti che si sono frequentati. La sensibilità di Vallorani trasfigura temi e soggetti a lui cari con un punto di vista personale che si caratterizza per autentica originalità, una cifra stilistica matura benché in continua evoluzione”.
Marco Peri
PERIFERIE DELL’ANIMA
Opere di Federico Crisa (Cagliari, 1984)
Galleria Portanova 12 Bologna
PERIFERIE DELL’ANIMA
Le periferie dell’anima sono atmosfere interiori, paesaggi emozionali che si rivelano sottovoce. Come nelle superfici stratificate di vecchi muri sbiaditi emergono frammenti di una visione.
Le memorie, i desideri e l’immaginazione si confondono.
Crisa utilizza una tecnica istintiva, trasformando vecchie mattonelle ceramiche recuperate in composizioni dove la profondità dell’inconscio prende forma lasciando affiorare tracce, segni e parole che corrispondono al suo sguardo sul mondo.
L’artista è abituato a confrontarsi con grandi dimensioni murali e site-specific ambientali, ma con queste opere, nonostante il piccolo formato, l’immediatezza gestuale restituisce ambienti visivi che hanno l’intensità dello spazio infinito.
Le tele invece mostrano un approccio più meditato verso la pittura, quasi in assenza di colore appaiono come visioni in controluce. Più in là delle linee essenziali che si intrecciano con la natura in primissimo piano, nel sottofondo pulsa un altro universo di macchie, segni e raschi.
L’universo emotivo di ciascuna opera è un invito per andare oltre, un’opportunità per stimolare la personale sensibilità, estendere le proprie percezioni ed esplorare le personali periferie dell’anima.
Marco Peri
Le periferie dell’anima sono atmosfere interiori, paesaggi emozionali che si rivelano sottovoce. Come nelle superfici stratificate di vecchi muri sbiaditi emergono frammenti di una visione.
Le memorie, i desideri e l’immaginazione si confondono.
Crisa utilizza una tecnica istintiva, trasformando vecchie mattonelle ceramiche recuperate in composizioni dove la profondità dell’inconscio prende forma lasciando affiorare tracce, segni e parole che corrispondono al suo sguardo sul mondo.
L’artista è abituato a confrontarsi con grandi dimensioni murali e site-specific ambientali, ma con queste opere, nonostante il piccolo formato, l’immediatezza gestuale restituisce ambienti visivi che hanno l’intensità dello spazio infinito.
Le tele invece mostrano un approccio più meditato verso la pittura, quasi in assenza di colore appaiono come visioni in controluce. Più in là delle linee essenziali che si intrecciano con la natura in primissimo piano, nel sottofondo pulsa un altro universo di macchie, segni e raschi.
L’universo emotivo di ciascuna opera è un invito per andare oltre, un’opportunità per stimolare la personale sensibilità, estendere le proprie percezioni ed esplorare le personali periferie dell’anima.
Marco Peri
Gino Frogheri - Studio visit Nuoro, 1 settembre 2019
Il nostro incontro avviene mentre Gino Frogheri sta preparando due importanti rassegne dei suoi lavori, a Cagliari e Nuoro.
Due mostre che coincidono temporalmente nell’autunno 2019 e che indagano da diverse prospettive gli aspetti più significativi del lungo percorso artistico.
Un momento propizio per riordinare materiali e memorie ed immaginare un archivio che restituisca le molteplici sfaccettature di una ricerca nell’arte rigorosa e appassionata.
Per Gino Frogheri oltretutto è l’occasione per confrontarsi con l’attenzione di una nuova generazione di giovani curatori e storici dell’arte che non hanno partecipato a quell’intensa stagione di grande sperimentazione e rinnovamento figurativo, di gallerie e collezionisti, tra gli anni ‘60 e ‘80, ma possono oggi rileggerla con uno sguardo nuovo.
Un distacco storico che probabilmente permetterà di valutare ancora meglio il ruolo dell’opera di Frogheri nel contesto dell’arte in Sardegna.
Gino Frogheri è uno spirito travolgente, traboccante di vitalità, un temperamento affabile e sicuro di sé.
Una memoria lucida, capace di ricordare con vivacità aneddoti ed esperienze lontane.
Nuorese, nuorese, vive ritirato tra la sua casa in centro città e lo studio nelle tiepide campagne di Badde Manna, circondato dalla presenza di numerosi cani fonnesi di cui è tra i massimi esperti al mondo.
Mentre mi racconta con passione dei suoi interessi nell’arte facciamo un continuo avanti e indietro nel tempo, mescolando storie, intrecciando racconti e memorie.
L’appartamento/studio nel centro di Nuoro che conserva molte tracce visive del suo percorso è come un vortice in cui continuano incessantemente a muoversi nuove idee e vecchi progetti. Ci sono tele dappertutto e diversi materiali funzionali alle sue opere, pannelli di polistirolo, sagome di cartoncino, specchi, strutture.
Mi mostra un barattolo di vernice rossa d’altoforno, residuo industriale fuori commercio, che ritiene indispensabile per ottenere le dovute reazioni tra superficie e diluente.
Gli accostamenti casuali dei nostri discorsi assomigliano al disordine stratigrafico che domina in ogni ambiente del suo studio.
Dai piani del tavolo affiorano decine di fotografie in bianco e nero, incipit per un futuro archivio da riordinare: carte sparse, inviti delle mostre, fotografie dei vernissage e ritagli di giornale, documenti che ripercorrono in modo imprevedibile momenti di un percorso lungo oltre cinquant’anni.
Emerge la fortunata epoca della Galleria Chironi 88 nel centro storico di Nuoro, che grazie all’impegno e alle intuizioni dell’audace gallerista Sandrina Piras, lo mette a confronto con la ricerca artistica nazionale e internazionale d’avanguardia.
Il rapporto tra i due è centrale nello sviluppo della consapevolezza artistica di Frogheri perché la gallerista ha incoraggiato fin dagli esordi il suo talento, organizzando le prime mostre e sostenendo tenacemente la valorizzazione del percorso artistico.
Insieme hanno fatto lunghi viaggi in auto, con i quadri imballati nell’imperiale, alla volta delle gallerie d’arte di Milano e di Parigi, come testimoniano le numerose fotografie in compagnia dei personaggi più influenti del sistema dell’arte d’allora.
L’interesse della ricerca artistica di Gino Frogheri ha trovato conferma nella parole favorevoli di storici dell’arte del calibro di Corrado Maltese, Michel Tapiè, Salvatore Naitza, Luciano Caramel e Fred Licht.
È Salvatore Naitza colui che meglio di tutti, ha contribuito a inquadrare storicamente il percorso di Frogheri segnalando all’artista stesso possibili scenari verso nuove direzioni per la propria ricerca espressiva.
Nel panorama dell’arte in Sardegna Gino Frogheri è una presenza del tutto appartata, se la critica gli ha riconosciuto da sempre un posto di rilievo tra gli artisti della sua generazione è per merito di una ricerca svolta con assoluta libertà, slegato da gruppi o correnti.
Un carattere di unicità che probabilmente gli deriva dal suo essere completamente autodidatta, privo di maestri ufficialmente riconosciuti.
Ma sopratutto per il suo ruolo distaccato riguardo agli interessi dei pittori nuoresi suoi contemporanei, che sul finire degli anni ‘50, restavano ancora cristallizzati nella rappresentazione oleografica di una Sardegna agro pastorale e idealizzata.
A Gino Frogheri da giovane interessano altri temi: i paesaggi urbani della sua città, i cantieri, i minatori, soggetti che tratta con originalità e grande forza espressiva.
L’unico cedimento verso un possibile indirizzo ‘sardo’ potrebbe sembrare la rappresentazione dei Cavalli. La bellezza e l'armonia dei loro muscoli possenti in movimento rappresentano infatti per l'artista un tema di enorme fascino. Tuttavia è questo un soggetto che ha un lunghissimo rapporto con la storia universale dell’arte e per Frogheri è piuttosto il pretesto per indagare il senso di dinamicità e temporalità nello spazio della tela.
Dotato di un naturale talento, dimostra fin dagli anni giovanili una predisposizione verso il disegno. È attratto dalla forza dinamica del colore, curioso per natura verso le possibilità espressive dei materiali pittorici. Costantemente alla ricerca di nuovi percorsi guidato da inquietudini personali e poco incline a seguire la moda o il mercato, ha perseguito con continuità la via del rinnovamento dei linguaggi espressivi.
Negli anni ‘60 l’ammirazione per Mauro Manca lo conduce verso ricerche astratte e informali (Astratto, 1967). Alchimie coraggiose tra materiali lo inducono a spingere i limiti della pittura verso la sperimentazione di processi non convenzionali.
Nella cosiddetta centrifugazione utilizza vernici e diluenti per creare reazioni rigorosamente calcolate. Il risultato sono superfici dotate di materialità e profondità ottenute sfidando le imprevedibili reazioni di materie pittoriche industriali accostate con attitudine sperimentale.
Elabora una linea disinvolta che non serve per descrivere figure o contenere forme, ma esiste come evento autonomo che riproduce sul supporto i movimenti della sua mano. Una linea fluida e continua, quasi un automatismo di ascendenza surrealista, una pratica di libertà che si contrappone al rigore misuratissimo della linea che definisce la cosiddetta forma. (Interazioni su fondo nero, 1968; Rituale, 1969).
Osservando complessivamente i suoi lavori si riconosce che i suoi interessi mostrano ciclici ritorni verso la figurazione e costanti fughe verso nuove sperimentazioni. Il percorso mai abbandonato della figurazione, è caratterizzato da uno stile personale fatto di accenti coloristici che definiscono con rapidità ed efficacia le figure principali. I soggetti spiccano in uno spazio in movimento, sono dipinti al primo tratto senza disegno preparatorio e senza ripensamenti.
Una parte della rappresentazione rimane appena abbozzata, a volte solo evocata, mentre nei volti e nelle anatomie risalta una capacità espressiva notevole. Pennellate vivaci danno forma con poche linee essenziali, consegue un non-finito groviglio di linee che accentua il carattere altamente dinamico dell’intera composizione.
È questa una caratteristica che è possibile riconoscere fin dalle primissime opere giovanili come nell’impegnativo mosaico di ben 70 mq per la chiesa del Sacro Cuore di Nuoro eseguito nel 1957. Nei quadranti che scandiscono la scena intorno alla figura di Gesù, la rappresentazione di alcuni episodi biblici, dimostra con evidenza alcune peculiarità stilistiche che coerentemente accompagneranno il percorso figurativo dell’artista.
Tra i soggetti del versante figurativo le possibilità sono circoscritte a un ristretto repertorio. I Cavalli, i temi biblici, come dimostra il recente trittico realizzato per la nuova cappella nel cimitero di Nuoro (2009) ed infine numerosi ritratti singoli o familiari eseguiti su commissione. Temi e soggetti che sembrano di secondario interesse nella poetica dell’artista ma che Frogheri non ha mai trascurato perché evidentemente incontrano le richieste di un mercato locale maggiormente interessato al figurativo rispetto alle più complesse ricerche sulla forma e l’astrazione.
Gli anni Settanta sono dominati dalla consolidazione della forma.
L’artista ricorda il come e il quando abbia dipinto per la prima volta il soggetto (Sopravvissuti, 1971, opera dedicata a Grazia Deledda) ma non ha bisogno di spiegare la sua evoluzione perché l’ininterrotta reiterazione negli anni seguenti è come un autoritratto interiore, un fenomeno liminale sospeso tra estrema razionalità e totale casualità. Appare allo sguardo come un segno razionale, polisemico e ambiguo, che possiede tutte le qualità e contemporaneamente il loro opposto. Tra colore e forma, tra presenza e assenza, tra pieno e vuoto, tra luce e ombra, tra maschile e femminile. È la quintessenza di ogni dualismo irrisolto.
Nelle sue metamorfosi diviene superficie per complesse sperimentazioni materiche (Sopravvissuti anni ‘70) oppure esili silhouette che proiettano la propria ombra piana sul nulla.
L’indagine incessante sulla forma orienta la ricerca artistica verso il minimalismo pittorico come testimoniano alcune opere in cui il carattere di serialità del segno si fraziona dissolvendosi in porzioni della forma stessa (Forme e piani, 1974, Partiture in campo scuro, 1974) fino a quasi annullarsi in un’impercettibile linea di contorno nel grande silenzio del bianco assoluto (Costruzioni geometriche in fondo bianco; Ritmica 1982, 1984).
L’evoluzione non si esaurisce e negli anni ‘90 acquisisce una cifra neo-concettuale (serie Presenza anni ‘90 e Auto-rifrazioni ‘94/’96) fino a riprendere concretezza per interagire con lo spazio tridimensionale come nelle estese Pitto-strutture.
Le inquietudini più recenti lo portano a ideare vere e proprie installazioni, progettando dispositivi relazionali in cui l’oggetto/soggetto della forma esce dal piano acquisendo libertà di movimento. Opere ambientali in cui entrano in gioco nella dimensione effimera delle superfici specchianti, la forma sospesa, lo spazio e l’osservatore, moltiplicando infinite volte le possibilità di fruizione. (Biennale Sardegna, 2011).
Quando lascio lo studio dell’artista mi resta una piacevole sensazione, come quella che si prova al ritorno da un viaggio.
Gino Frogheri ha ottantadue anni, anzi come lui stesso ha voluto precisare ottantadue e mezzo, eppure non smette di occuparsi di sperimentare ancora.
Il suo lavoro continua ad essere un punto di riferimento per molti giovani artisti.
La ricerca continua.
Due mostre che coincidono temporalmente nell’autunno 2019 e che indagano da diverse prospettive gli aspetti più significativi del lungo percorso artistico.
Un momento propizio per riordinare materiali e memorie ed immaginare un archivio che restituisca le molteplici sfaccettature di una ricerca nell’arte rigorosa e appassionata.
Per Gino Frogheri oltretutto è l’occasione per confrontarsi con l’attenzione di una nuova generazione di giovani curatori e storici dell’arte che non hanno partecipato a quell’intensa stagione di grande sperimentazione e rinnovamento figurativo, di gallerie e collezionisti, tra gli anni ‘60 e ‘80, ma possono oggi rileggerla con uno sguardo nuovo.
Un distacco storico che probabilmente permetterà di valutare ancora meglio il ruolo dell’opera di Frogheri nel contesto dell’arte in Sardegna.
Gino Frogheri è uno spirito travolgente, traboccante di vitalità, un temperamento affabile e sicuro di sé.
Una memoria lucida, capace di ricordare con vivacità aneddoti ed esperienze lontane.
Nuorese, nuorese, vive ritirato tra la sua casa in centro città e lo studio nelle tiepide campagne di Badde Manna, circondato dalla presenza di numerosi cani fonnesi di cui è tra i massimi esperti al mondo.
Mentre mi racconta con passione dei suoi interessi nell’arte facciamo un continuo avanti e indietro nel tempo, mescolando storie, intrecciando racconti e memorie.
L’appartamento/studio nel centro di Nuoro che conserva molte tracce visive del suo percorso è come un vortice in cui continuano incessantemente a muoversi nuove idee e vecchi progetti. Ci sono tele dappertutto e diversi materiali funzionali alle sue opere, pannelli di polistirolo, sagome di cartoncino, specchi, strutture.
Mi mostra un barattolo di vernice rossa d’altoforno, residuo industriale fuori commercio, che ritiene indispensabile per ottenere le dovute reazioni tra superficie e diluente.
Gli accostamenti casuali dei nostri discorsi assomigliano al disordine stratigrafico che domina in ogni ambiente del suo studio.
Dai piani del tavolo affiorano decine di fotografie in bianco e nero, incipit per un futuro archivio da riordinare: carte sparse, inviti delle mostre, fotografie dei vernissage e ritagli di giornale, documenti che ripercorrono in modo imprevedibile momenti di un percorso lungo oltre cinquant’anni.
Emerge la fortunata epoca della Galleria Chironi 88 nel centro storico di Nuoro, che grazie all’impegno e alle intuizioni dell’audace gallerista Sandrina Piras, lo mette a confronto con la ricerca artistica nazionale e internazionale d’avanguardia.
Il rapporto tra i due è centrale nello sviluppo della consapevolezza artistica di Frogheri perché la gallerista ha incoraggiato fin dagli esordi il suo talento, organizzando le prime mostre e sostenendo tenacemente la valorizzazione del percorso artistico.
Insieme hanno fatto lunghi viaggi in auto, con i quadri imballati nell’imperiale, alla volta delle gallerie d’arte di Milano e di Parigi, come testimoniano le numerose fotografie in compagnia dei personaggi più influenti del sistema dell’arte d’allora.
L’interesse della ricerca artistica di Gino Frogheri ha trovato conferma nella parole favorevoli di storici dell’arte del calibro di Corrado Maltese, Michel Tapiè, Salvatore Naitza, Luciano Caramel e Fred Licht.
È Salvatore Naitza colui che meglio di tutti, ha contribuito a inquadrare storicamente il percorso di Frogheri segnalando all’artista stesso possibili scenari verso nuove direzioni per la propria ricerca espressiva.
Nel panorama dell’arte in Sardegna Gino Frogheri è una presenza del tutto appartata, se la critica gli ha riconosciuto da sempre un posto di rilievo tra gli artisti della sua generazione è per merito di una ricerca svolta con assoluta libertà, slegato da gruppi o correnti.
Un carattere di unicità che probabilmente gli deriva dal suo essere completamente autodidatta, privo di maestri ufficialmente riconosciuti.
Ma sopratutto per il suo ruolo distaccato riguardo agli interessi dei pittori nuoresi suoi contemporanei, che sul finire degli anni ‘50, restavano ancora cristallizzati nella rappresentazione oleografica di una Sardegna agro pastorale e idealizzata.
A Gino Frogheri da giovane interessano altri temi: i paesaggi urbani della sua città, i cantieri, i minatori, soggetti che tratta con originalità e grande forza espressiva.
L’unico cedimento verso un possibile indirizzo ‘sardo’ potrebbe sembrare la rappresentazione dei Cavalli. La bellezza e l'armonia dei loro muscoli possenti in movimento rappresentano infatti per l'artista un tema di enorme fascino. Tuttavia è questo un soggetto che ha un lunghissimo rapporto con la storia universale dell’arte e per Frogheri è piuttosto il pretesto per indagare il senso di dinamicità e temporalità nello spazio della tela.
Dotato di un naturale talento, dimostra fin dagli anni giovanili una predisposizione verso il disegno. È attratto dalla forza dinamica del colore, curioso per natura verso le possibilità espressive dei materiali pittorici. Costantemente alla ricerca di nuovi percorsi guidato da inquietudini personali e poco incline a seguire la moda o il mercato, ha perseguito con continuità la via del rinnovamento dei linguaggi espressivi.
Negli anni ‘60 l’ammirazione per Mauro Manca lo conduce verso ricerche astratte e informali (Astratto, 1967). Alchimie coraggiose tra materiali lo inducono a spingere i limiti della pittura verso la sperimentazione di processi non convenzionali.
Nella cosiddetta centrifugazione utilizza vernici e diluenti per creare reazioni rigorosamente calcolate. Il risultato sono superfici dotate di materialità e profondità ottenute sfidando le imprevedibili reazioni di materie pittoriche industriali accostate con attitudine sperimentale.
Elabora una linea disinvolta che non serve per descrivere figure o contenere forme, ma esiste come evento autonomo che riproduce sul supporto i movimenti della sua mano. Una linea fluida e continua, quasi un automatismo di ascendenza surrealista, una pratica di libertà che si contrappone al rigore misuratissimo della linea che definisce la cosiddetta forma. (Interazioni su fondo nero, 1968; Rituale, 1969).
Osservando complessivamente i suoi lavori si riconosce che i suoi interessi mostrano ciclici ritorni verso la figurazione e costanti fughe verso nuove sperimentazioni. Il percorso mai abbandonato della figurazione, è caratterizzato da uno stile personale fatto di accenti coloristici che definiscono con rapidità ed efficacia le figure principali. I soggetti spiccano in uno spazio in movimento, sono dipinti al primo tratto senza disegno preparatorio e senza ripensamenti.
Una parte della rappresentazione rimane appena abbozzata, a volte solo evocata, mentre nei volti e nelle anatomie risalta una capacità espressiva notevole. Pennellate vivaci danno forma con poche linee essenziali, consegue un non-finito groviglio di linee che accentua il carattere altamente dinamico dell’intera composizione.
È questa una caratteristica che è possibile riconoscere fin dalle primissime opere giovanili come nell’impegnativo mosaico di ben 70 mq per la chiesa del Sacro Cuore di Nuoro eseguito nel 1957. Nei quadranti che scandiscono la scena intorno alla figura di Gesù, la rappresentazione di alcuni episodi biblici, dimostra con evidenza alcune peculiarità stilistiche che coerentemente accompagneranno il percorso figurativo dell’artista.
Tra i soggetti del versante figurativo le possibilità sono circoscritte a un ristretto repertorio. I Cavalli, i temi biblici, come dimostra il recente trittico realizzato per la nuova cappella nel cimitero di Nuoro (2009) ed infine numerosi ritratti singoli o familiari eseguiti su commissione. Temi e soggetti che sembrano di secondario interesse nella poetica dell’artista ma che Frogheri non ha mai trascurato perché evidentemente incontrano le richieste di un mercato locale maggiormente interessato al figurativo rispetto alle più complesse ricerche sulla forma e l’astrazione.
Gli anni Settanta sono dominati dalla consolidazione della forma.
L’artista ricorda il come e il quando abbia dipinto per la prima volta il soggetto (Sopravvissuti, 1971, opera dedicata a Grazia Deledda) ma non ha bisogno di spiegare la sua evoluzione perché l’ininterrotta reiterazione negli anni seguenti è come un autoritratto interiore, un fenomeno liminale sospeso tra estrema razionalità e totale casualità. Appare allo sguardo come un segno razionale, polisemico e ambiguo, che possiede tutte le qualità e contemporaneamente il loro opposto. Tra colore e forma, tra presenza e assenza, tra pieno e vuoto, tra luce e ombra, tra maschile e femminile. È la quintessenza di ogni dualismo irrisolto.
Nelle sue metamorfosi diviene superficie per complesse sperimentazioni materiche (Sopravvissuti anni ‘70) oppure esili silhouette che proiettano la propria ombra piana sul nulla.
L’indagine incessante sulla forma orienta la ricerca artistica verso il minimalismo pittorico come testimoniano alcune opere in cui il carattere di serialità del segno si fraziona dissolvendosi in porzioni della forma stessa (Forme e piani, 1974, Partiture in campo scuro, 1974) fino a quasi annullarsi in un’impercettibile linea di contorno nel grande silenzio del bianco assoluto (Costruzioni geometriche in fondo bianco; Ritmica 1982, 1984).
L’evoluzione non si esaurisce e negli anni ‘90 acquisisce una cifra neo-concettuale (serie Presenza anni ‘90 e Auto-rifrazioni ‘94/’96) fino a riprendere concretezza per interagire con lo spazio tridimensionale come nelle estese Pitto-strutture.
Le inquietudini più recenti lo portano a ideare vere e proprie installazioni, progettando dispositivi relazionali in cui l’oggetto/soggetto della forma esce dal piano acquisendo libertà di movimento. Opere ambientali in cui entrano in gioco nella dimensione effimera delle superfici specchianti, la forma sospesa, lo spazio e l’osservatore, moltiplicando infinite volte le possibilità di fruizione. (Biennale Sardegna, 2011).
Quando lascio lo studio dell’artista mi resta una piacevole sensazione, come quella che si prova al ritorno da un viaggio.
Gino Frogheri ha ottantadue anni, anzi come lui stesso ha voluto precisare ottantadue e mezzo, eppure non smette di occuparsi di sperimentare ancora.
Il suo lavoro continua ad essere un punto di riferimento per molti giovani artisti.
La ricerca continua.
CARRASECARE DESIGN
di Mara Damiani e Luca M. Damiani
Il libro progetto di Mara Damiani è un’esperienza di conoscenza tra immagini e parole.
È stata capace di proporre uno sguardo nuovo, innovativo e originale sulla tradizione.
Le radici affondano nella storia dell’arte della Sardegna, tra i riferimenti principali che è possibile citare ci sono il design di Eugenio Tavolara e le sintesi in forme essenziali dei quadri in stoffa delle sorelle Coroneo.
Dal primo ha saputo raccogliere la capacità di aggiornare secondo modelli cosmopoliti e aperti alle influenze contemporanee il design tradizionale della Sardegna.
Eugenio Tavolara tra gli anni '50 e '60 ha offerto grande impulso al rinnovamento delle arti applicate e dell’artigianato in Sardegna, è stato un instancabile animatore dell’ISOLA, l'ente che si occupava di sostenere e promuovere l'artigianato sardo. Collaborando con numerosi abili artigiani ha riletto e interpretato la tradizione figurativa, aggiornando i modelli espressivi e dando un nuovo significato all'artigianato contemporaneo.
L’opera di Eugenio Tavolara ha dato grande impulso sopratutto nel design bidimensionale, come per esempio nella creazione di modelli per la tessitura di tappeti, elaborando pattern di colori e forme caratterizzate da un’idea di design semplice e simbolica ancorata a modelli rappresentativi di grande suggestione.
Così come nell'intaglio del legno come per esempio sui frontoni delle cassapanche.
Nel secolo scorso l’enorme patrimonio culturale figurativo della Sardegna ha preso nuovo slancio proprio grazie al lavoro appassionato di Eugenio Tavolara che nel ruolo di designer ha prodotto nuovi modelli rappresentativi più liberi e aperti alle contaminazioni, dando forma all’idea di artigianato sardo che oggi noi conosciamo. Certamente la sua opera ha influenzato positivamente anche l'opera di Mara Damiani che trova nella prospettiva bidimensionale della grafica lo strumento ideale.
Nei soggetti di Mara Damiani si ritrovano inoltre molte affinità con l'armonia di gusto Deco' che caratterizza il design delle sorelle Coroneo.
Da loro la designer ha saputo cogliere la stessa volontà di superare i canoni stilistici di rappresentazione dei costumi con una certa eleganza e originalità.
Il libro Carrasecare Design è accompagnato da brevi testi molto incisivi che rendono l’intero volume anche un valido supporto didattico per conoscere e approfondire l’enorme patrimonio etnografico dei carnevali di Sardegna.
Il lavoro di Mara Damiani è intenso e appassionato, direi un atto d’amore verso la Sardegna, un gesto concreto per conoscere e per far conoscere ad un pubblico ampio la tradizione unica che l'isola ha prodotto.
L’estrema cura nei dettagli esprime la volontà di restituire in maniera sintetica la simbologia e la ritualità sottesa ad ogni costume tradizionale. La sintesi formale è sempre molto poetica, i soggetti rappresentati si trasformano nelle pagine in pattern di colori e forme che riportano con straordinaria potenza le antiche tradizioni alla cultura visuale contemporanea.
Le prospettive di questo libro sono molteplici, innanzitutto la volontà di fermare e restituire un punto di vista sul ricchissimo patrimonio etnografico, con l'originalità di superare gli stereotipi e i cliché rappresentativi in cui spesso questa ricchezza viene imprigionata.
Inoltre il libro sarà un eccellente strumento di comunicazione, un invito per conoscere e per approfondire, per decodificare i simboli e i segni della tradizione, per cogliere la profondità delle differenze di un mondo antico che appartiene a tutti.
Niente è statico ed immutabile nella storia e nella vita perciò le tradizioni hanno necessità di prendere nuove forme per segnare il proprio tempo.
Certamente il volume di Mara Damiani si impone per la chiara volontà di superare i modelli rappresentativi offrendo una necessaria revisione della tradizione che aggiunge oggi una nuova pagina, quella contemporanea.
È stata capace di proporre uno sguardo nuovo, innovativo e originale sulla tradizione.
Le radici affondano nella storia dell’arte della Sardegna, tra i riferimenti principali che è possibile citare ci sono il design di Eugenio Tavolara e le sintesi in forme essenziali dei quadri in stoffa delle sorelle Coroneo.
Dal primo ha saputo raccogliere la capacità di aggiornare secondo modelli cosmopoliti e aperti alle influenze contemporanee il design tradizionale della Sardegna.
Eugenio Tavolara tra gli anni '50 e '60 ha offerto grande impulso al rinnovamento delle arti applicate e dell’artigianato in Sardegna, è stato un instancabile animatore dell’ISOLA, l'ente che si occupava di sostenere e promuovere l'artigianato sardo. Collaborando con numerosi abili artigiani ha riletto e interpretato la tradizione figurativa, aggiornando i modelli espressivi e dando un nuovo significato all'artigianato contemporaneo.
L’opera di Eugenio Tavolara ha dato grande impulso sopratutto nel design bidimensionale, come per esempio nella creazione di modelli per la tessitura di tappeti, elaborando pattern di colori e forme caratterizzate da un’idea di design semplice e simbolica ancorata a modelli rappresentativi di grande suggestione.
Così come nell'intaglio del legno come per esempio sui frontoni delle cassapanche.
Nel secolo scorso l’enorme patrimonio culturale figurativo della Sardegna ha preso nuovo slancio proprio grazie al lavoro appassionato di Eugenio Tavolara che nel ruolo di designer ha prodotto nuovi modelli rappresentativi più liberi e aperti alle contaminazioni, dando forma all’idea di artigianato sardo che oggi noi conosciamo. Certamente la sua opera ha influenzato positivamente anche l'opera di Mara Damiani che trova nella prospettiva bidimensionale della grafica lo strumento ideale.
Nei soggetti di Mara Damiani si ritrovano inoltre molte affinità con l'armonia di gusto Deco' che caratterizza il design delle sorelle Coroneo.
Da loro la designer ha saputo cogliere la stessa volontà di superare i canoni stilistici di rappresentazione dei costumi con una certa eleganza e originalità.
Il libro Carrasecare Design è accompagnato da brevi testi molto incisivi che rendono l’intero volume anche un valido supporto didattico per conoscere e approfondire l’enorme patrimonio etnografico dei carnevali di Sardegna.
Il lavoro di Mara Damiani è intenso e appassionato, direi un atto d’amore verso la Sardegna, un gesto concreto per conoscere e per far conoscere ad un pubblico ampio la tradizione unica che l'isola ha prodotto.
L’estrema cura nei dettagli esprime la volontà di restituire in maniera sintetica la simbologia e la ritualità sottesa ad ogni costume tradizionale. La sintesi formale è sempre molto poetica, i soggetti rappresentati si trasformano nelle pagine in pattern di colori e forme che riportano con straordinaria potenza le antiche tradizioni alla cultura visuale contemporanea.
Le prospettive di questo libro sono molteplici, innanzitutto la volontà di fermare e restituire un punto di vista sul ricchissimo patrimonio etnografico, con l'originalità di superare gli stereotipi e i cliché rappresentativi in cui spesso questa ricchezza viene imprigionata.
Inoltre il libro sarà un eccellente strumento di comunicazione, un invito per conoscere e per approfondire, per decodificare i simboli e i segni della tradizione, per cogliere la profondità delle differenze di un mondo antico che appartiene a tutti.
Niente è statico ed immutabile nella storia e nella vita perciò le tradizioni hanno necessità di prendere nuove forme per segnare il proprio tempo.
Certamente il volume di Mara Damiani si impone per la chiara volontà di superare i modelli rappresentativi offrendo una necessaria revisione della tradizione che aggiunge oggi una nuova pagina, quella contemporanea.
ESTERNO / INTERNO
Crisa - Federico Carta
Il titolo della mostra allude all’influenza che il mondo esterno esercita sull'immaginazione dell’artista. L’esperienza creativa di Federico Carta si nutre di camminate urbane e si arricchisce dalla casualità del flusso degli incontri. La città contemporanea comunica con lui, rivela nei sui aspetti marginali una vita intensa in continuo cambiamento, mostra habitat meravigliosi, degrado e rinascite che si avvicendano senza sosta, ma è un mondo misterioso che si svela solo a chi ha la curiosità per la scoperta.
All’interno del suo studio queste visioni esteriori, filtrate da una sensibilità straordinaria, si trasfigurano nell'azione pittorica in immagini e simboli di universi animati.
Sulle tele emergono bizzarre visioni grafiche, libere trasposizioni di impulsi interiori, una realtà sospesa tra immaginario e reale.
La pratica di muralista urbano, capace di eseguire lavori imponenti che ricoprono anche intere architetture, ritrova nelle opere su tela un carattere più intimo.
Federico Carta ha elaborato un linguaggio espressivo molto originale, ciascuna tela viene preparata con il bitume, letteralmente asfalto liquido che accoglie svariate sovrapposizioni di pittura finché l’artista rintraccia lo sfondo ideale per far emergere graficamente il mondo visionario e simbolico che lo caratterizza.
Il gesto grafico, eseguito con un punteruolo, libera gli strati di colore riportando alla superficie un tratto nero bitume, sottile e brillante. Il raschio disegna alcuni simboli costanti, le piante che crescono e avvolgono ogni cosa, fili sottilissimi o grondaie imponenti che collegano e uniscono indistintamente elementi naturali e tracce umane.
Il risultato è un’immagine stratificata e profonda dalla quale affiorano cromie, scritte e altri messaggi visivi, in un rimando di suggestioni e assonanze con i muri delle città, una creazione interiore dove tutto appare in crescita e movimento.
All’interno del suo studio queste visioni esteriori, filtrate da una sensibilità straordinaria, si trasfigurano nell'azione pittorica in immagini e simboli di universi animati.
Sulle tele emergono bizzarre visioni grafiche, libere trasposizioni di impulsi interiori, una realtà sospesa tra immaginario e reale.
La pratica di muralista urbano, capace di eseguire lavori imponenti che ricoprono anche intere architetture, ritrova nelle opere su tela un carattere più intimo.
Federico Carta ha elaborato un linguaggio espressivo molto originale, ciascuna tela viene preparata con il bitume, letteralmente asfalto liquido che accoglie svariate sovrapposizioni di pittura finché l’artista rintraccia lo sfondo ideale per far emergere graficamente il mondo visionario e simbolico che lo caratterizza.
Il gesto grafico, eseguito con un punteruolo, libera gli strati di colore riportando alla superficie un tratto nero bitume, sottile e brillante. Il raschio disegna alcuni simboli costanti, le piante che crescono e avvolgono ogni cosa, fili sottilissimi o grondaie imponenti che collegano e uniscono indistintamente elementi naturali e tracce umane.
Il risultato è un’immagine stratificata e profonda dalla quale affiorano cromie, scritte e altri messaggi visivi, in un rimando di suggestioni e assonanze con i muri delle città, una creazione interiore dove tutto appare in crescita e movimento.
Incontri inattesi
Illustrazioni originali di GIOIA MARCHEGIANI e MARIACHIARA DI GIORGIO
dal 5 al 29 ottobre 2017 - ingresso libero – h 10,30 / 24,00
Babeuf // tè, vino e letture lente, Cagliari Via giardini 147/a
Info: www.tuttestorie.it/eventi-festival/3033/
“Incontri inattesi” è una mostra di immagini dal carattere speciale: illustrazioni, cioè disegni concepiti per accompagnare le parole di un libro o lo svolgersi di un racconto, con la capacità simbolica di andare oltre il testo a cui sono legate producendo un proprio significato rilevante e autonomo.
Le tavole esposte, di Mariachiara Di Giorgio e Gioia Marchegiani, slegate dal contesto dei libri di cui sono parte essenziale, si presentano in questa mostra per il loro impatto comunicativo indipendente e offrono l’occasione per riflettere sul valore dell’illustrazione come forma d’espressione artistica con un proprio valore.
Il titolo “Incontri inattesi” allude al carattere plurale di questo progetto per suggerire le molteplici occasioni d’incontro che una mostra doppia come questa può contenere.
Mariachiara Di Giorgio e Gioia Marchegiani ci propongono una selezione dei loro lavori (e presentano a quattro mani un workshop per illustratori e aspiranti)
intrecciando due stili diversi, uno scambio di sguardi sul mondo, nel confronto tra la loro poetica individuale e il nostro personale modo di vedere e sentire.
I disegni di Mariachiara Di Giorgio, descrivono una realtà immaginaria che pullula di vita vera. Le scene e gli ambienti in cui vivono i suoi protagonisti sono raffigurati con un approccio filmico, con inquadrature dinamiche che scandiscono efficacemente il ritmo e la sequenza narrativa.
Lo stile ha un accento surreale, con pochi tratti inventa personaggi molto ben caratterizzati, animati sempre da un’espressività buffa e briosa.
Il colore è un elemento distintivo, è un colore evocativo, capace di conferire vitalità a ogni soggetto e alla scena, con richiami all’immaginario visivo della contemporaneità, dal mondo della pubblicità a quello dell’arte visiva.
Lo stile di Gioia Marchegiani riesce a evocare una dimensione di sogno pur rappresentando il reale. I suoi disegni ricercano l’autenticità e si presentano con
l’immediatezza di un taccuino denso di appunti visivi: le persone, le piante, gli uccelli, la forma unica della montagna che sovrasta il paese di Maria Lai.
Il suo sguardo è quasi documentario, con richiami puntuali all’immaginario visivo cinematografico della Sardegna.
Alterna campi lunghissimi a ritratti intimisti, la precisa descrizione della vita e dei costumi con la grandiosità del paesaggio, l’immensità del cielo, del mare e la forza del vento. Emergono i contrasti di luce e ombra, e in questa qualità chiaroscurale si mette in evidenza la forma di un paesaggio interiore, l’unione
tra la natura e le persone.
Illustrazioni originali di GIOIA MARCHEGIANI e MARIACHIARA DI GIORGIO
dal 5 al 29 ottobre 2017 - ingresso libero – h 10,30 / 24,00
Babeuf // tè, vino e letture lente, Cagliari Via giardini 147/a
Info: www.tuttestorie.it/eventi-festival/3033/
“Incontri inattesi” è una mostra di immagini dal carattere speciale: illustrazioni, cioè disegni concepiti per accompagnare le parole di un libro o lo svolgersi di un racconto, con la capacità simbolica di andare oltre il testo a cui sono legate producendo un proprio significato rilevante e autonomo.
Le tavole esposte, di Mariachiara Di Giorgio e Gioia Marchegiani, slegate dal contesto dei libri di cui sono parte essenziale, si presentano in questa mostra per il loro impatto comunicativo indipendente e offrono l’occasione per riflettere sul valore dell’illustrazione come forma d’espressione artistica con un proprio valore.
Il titolo “Incontri inattesi” allude al carattere plurale di questo progetto per suggerire le molteplici occasioni d’incontro che una mostra doppia come questa può contenere.
Mariachiara Di Giorgio e Gioia Marchegiani ci propongono una selezione dei loro lavori (e presentano a quattro mani un workshop per illustratori e aspiranti)
intrecciando due stili diversi, uno scambio di sguardi sul mondo, nel confronto tra la loro poetica individuale e il nostro personale modo di vedere e sentire.
I disegni di Mariachiara Di Giorgio, descrivono una realtà immaginaria che pullula di vita vera. Le scene e gli ambienti in cui vivono i suoi protagonisti sono raffigurati con un approccio filmico, con inquadrature dinamiche che scandiscono efficacemente il ritmo e la sequenza narrativa.
Lo stile ha un accento surreale, con pochi tratti inventa personaggi molto ben caratterizzati, animati sempre da un’espressività buffa e briosa.
Il colore è un elemento distintivo, è un colore evocativo, capace di conferire vitalità a ogni soggetto e alla scena, con richiami all’immaginario visivo della contemporaneità, dal mondo della pubblicità a quello dell’arte visiva.
Lo stile di Gioia Marchegiani riesce a evocare una dimensione di sogno pur rappresentando il reale. I suoi disegni ricercano l’autenticità e si presentano con
l’immediatezza di un taccuino denso di appunti visivi: le persone, le piante, gli uccelli, la forma unica della montagna che sovrasta il paese di Maria Lai.
Il suo sguardo è quasi documentario, con richiami puntuali all’immaginario visivo cinematografico della Sardegna.
Alterna campi lunghissimi a ritratti intimisti, la precisa descrizione della vita e dei costumi con la grandiosità del paesaggio, l’immensità del cielo, del mare e la forza del vento. Emergono i contrasti di luce e ombra, e in questa qualità chiaroscurale si mette in evidenza la forma di un paesaggio interiore, l’unione
tra la natura e le persone.
Manu Invisible e Alessio Cabras, viaggio nei Balcani
L’artista Manu Invisible accompagnato dal fotografo Alessio Cabras ha compiuto un viaggio nelle terre dei Balcani che negli anni ‘90 sono state territorio dello scontro crudele e feroce della guerra.
Un progetto di ricerca artistica per vivere la realtà di un paese in cambiamento che ha superato il dramma della guerra ma che ancora ne conserva le tracce.
Per i due giovani artisti questo viaggio significa sopratutto mettersi in ascolto, osservare per conoscere e cercare capire.
Il viaggio comincia a Sarajevo ma è Srebrenica la loro meta, la piccola città di confine e di contrasti, immersa in un territorio montuoso di grande fascino naturalistico ma segnato indelebilmente nella memoria collettiva dal doloroso ricordo del massacro del 1995 quando fu teatro del peggiore genocidio dopo la seconda guerra mondiale.
Srebrenica fino agli anni 90 è stata un territorio di benessere con circa 40mila abitanti ma ha subito un forte spopolamento durante la guerra e anche più di recente quando molti giovani hanno deciso di emigrare in cerca di fortuna.
Oggi Srebrenica è un luogo che cerca riscatto con la volontà di guardare oltre. La città che si presenta ai due artisti è un luogo popolato da gente di buona volontà, ci sono tanti giovani che resistono e che sognano di far crescere qua i propri figli.
La rete di contatti costruita dall'Italia da Alessio Cabras e Manu Invisible prima della partenza è un ponte per interagire con la comunità locale. La loro permanenza a Srebrenica è costellata di scoperte e d’incontri, primo fra tutti quello con Irvin Mujčić che li ha accolti nella sua casa e accompagnati alla scoperta della città e delle sue contraddizioni rispondendo a tutti i loro interrogativi e curiosità.
Irvin è un giovane brillante che ha ideato un progetto ambizioso per la sua comunità, sta recuperando tutti gli edifici abbandonati e segnati dalla guerra per trasformarli in strutture ricettive diffuse che possano accogliere un nuovo turismo. Non più quello macabro di chi arriva a Srebrenica per osservare gli sfregi della guerra ma un turismo più "consapevole" che ricerca nella natura e nella storia il suo principale motivo d’interesse.
Srebrenica infatti si trova in una zona montuosa, il suo nome significa "miniera d'argento”, il paesaggio rurale nel quale è immersa è dominato dal verde delle campagne e dei boschi, un verde con così tante sfumature da procurare meraviglia.
Le opere:
In un muro che costeggia una delle principali vie di collegamento nel centro di Srebrenica, simbolicamente nei pressi di una scuola elementare, l'opera che Manu Invisible ha regalato alla città di si presenta con un messaggio essenziale e profondo.
L'opera si staglia in due blocchi di lettere cubitali spezzati da una diagonale, due blocchi che si rimettono insieme per dare senso alla parola “CBИJEST.”
Si legge "SVIJEST" che in serbo significa "consapevolezza",
Il lettering di dimensioni imponenti comincia con i caratteri cirillici della lingua serba ma il testo continua in caratteri occidentali. Un doppio alfabeto per la stessa parola, uno standard comune in questo territorio dove le lingue si mescolano, ma anche un messaggio che parla della necessità di dialogo.
La frattura diagonale con cui il testo è diviso è la metafora della storia della comunità spezzata dalla guerra. Due parti che si riuniscono, il senso della parola non può non far pensare alla storia recente, alle memorie di questi luoghi, ma è anche uno sguardo al tempo presente e più di tutto un auspicio per il futuro.
C’è la consapevolezza dell'esperienza che il conflitto ha lasciato nella comunità e accanto la consapevolezza che può esserci un altro avvenire, anche grazie a tanti giovani come Irvin che lavorano per realizzare uno sviluppo sostenibile e consapevole per il turismo di questo territorio.
Il murale testuale realizzato da Manu Invisible, già di per sé di grande impatto comunicativo, si carica di nuovi sensi grazie all’intervento pittorico che da corpo alle lettere. L'artista ha trovato nella storia della comunità e nel territorio l'ispirazione per questo intervento. La scala cromatica dell’intero lavoro si ispira alla natura circostante, al rigoglioso verde delle campagne intorno alla città e rappresenta un omaggio alla nuova attitudine turistica che il territorio vuole per sé.
Si riconosce all'interno della parola CBИJES il paesaggio lungo il fiume Drina, il confine naturale che divide la Bosnia Erzegovina dalla Serbia. Le sponde del fiume sono il limite naturale tra due popolazioni, ma anche la soglia che le unisce.
Mentre Manu Invisible è all’opera, Alessio Cabras documenta ogni azione e raccoglie nuove immagini per un reportage di ritratti degli abitanti di questo luogo. Durante la realizzazione del grande intervento murale la presenza degli artisti nella piccola comunità di Srebenica non passa inosservata e sono in tanti che si avvicinano per conoscere e per seguire da vicino il processo d’esecuzione dell'opera.
Il viavai quotidiano che la presenza degli artisti suscita nella comunità diventa un'occasione per incontrare più intensamente alcuni degli abitanti di Srebrenica e conoscere le loro storie attraverso l'obiettivo fotografico di Alessio Cabras.
Il murale nei pressi della scuola non è l’unica opera realizzata da Manu Invisible per Srebrenica, un secondo lavoro domina dall'alto la parte più vecchia della città e si affaccia verso la nuova moschea che sorge sulle fondamenta di una più antica oggi distrutta.
Un intervento di grande impatto visivo, dipinto su un muro di mattoni di una costruzione mai abitata, che recita semplicemente la parola “DIALOGUE”. Dialogo.
L'artista con il suo stile inconfondibile combina il lettering con aspetti pittorici creando un'unione dei principali simboli religiosi all’interno della parola stessa.
Il risultato è un efficace metafora per un tema più che mai attuale nel nostro tempo dominato dai contrasti religiosi.
Il dialogo infatti è la principale possibilità per superare e risolvere positivamente ogni conflitto.
L'artista utilizza il linguaggio essenziale della parola, ed alcune lettere si trasformano in simboli per caricare di potenza comunicativa il messaggio.
Alcune lettere della parola "dialogue" diventano la croce, la stella di Davide e la mezza luna che coesistono insieme nella parola DIALOGUE.
L'undici luglio ricorre l'anniversario del massacro di Srebrenica, sono trascorsi 22 anni da quella tragedia che impressionò il mondo intero. Quest'anno i bambini della scuola elementare e tutta la comunità di Srebrenica, così come i turisti che la visiteranno potranno riflettere e guardare avanti anche osservando le opere che Manu Invisible ha donato alla città.
Un progetto di ricerca artistica per vivere la realtà di un paese in cambiamento che ha superato il dramma della guerra ma che ancora ne conserva le tracce.
Per i due giovani artisti questo viaggio significa sopratutto mettersi in ascolto, osservare per conoscere e cercare capire.
Il viaggio comincia a Sarajevo ma è Srebrenica la loro meta, la piccola città di confine e di contrasti, immersa in un territorio montuoso di grande fascino naturalistico ma segnato indelebilmente nella memoria collettiva dal doloroso ricordo del massacro del 1995 quando fu teatro del peggiore genocidio dopo la seconda guerra mondiale.
Srebrenica fino agli anni 90 è stata un territorio di benessere con circa 40mila abitanti ma ha subito un forte spopolamento durante la guerra e anche più di recente quando molti giovani hanno deciso di emigrare in cerca di fortuna.
Oggi Srebrenica è un luogo che cerca riscatto con la volontà di guardare oltre. La città che si presenta ai due artisti è un luogo popolato da gente di buona volontà, ci sono tanti giovani che resistono e che sognano di far crescere qua i propri figli.
La rete di contatti costruita dall'Italia da Alessio Cabras e Manu Invisible prima della partenza è un ponte per interagire con la comunità locale. La loro permanenza a Srebrenica è costellata di scoperte e d’incontri, primo fra tutti quello con Irvin Mujčić che li ha accolti nella sua casa e accompagnati alla scoperta della città e delle sue contraddizioni rispondendo a tutti i loro interrogativi e curiosità.
Irvin è un giovane brillante che ha ideato un progetto ambizioso per la sua comunità, sta recuperando tutti gli edifici abbandonati e segnati dalla guerra per trasformarli in strutture ricettive diffuse che possano accogliere un nuovo turismo. Non più quello macabro di chi arriva a Srebrenica per osservare gli sfregi della guerra ma un turismo più "consapevole" che ricerca nella natura e nella storia il suo principale motivo d’interesse.
Srebrenica infatti si trova in una zona montuosa, il suo nome significa "miniera d'argento”, il paesaggio rurale nel quale è immersa è dominato dal verde delle campagne e dei boschi, un verde con così tante sfumature da procurare meraviglia.
Le opere:
In un muro che costeggia una delle principali vie di collegamento nel centro di Srebrenica, simbolicamente nei pressi di una scuola elementare, l'opera che Manu Invisible ha regalato alla città di si presenta con un messaggio essenziale e profondo.
L'opera si staglia in due blocchi di lettere cubitali spezzati da una diagonale, due blocchi che si rimettono insieme per dare senso alla parola “CBИJEST.”
Si legge "SVIJEST" che in serbo significa "consapevolezza",
Il lettering di dimensioni imponenti comincia con i caratteri cirillici della lingua serba ma il testo continua in caratteri occidentali. Un doppio alfabeto per la stessa parola, uno standard comune in questo territorio dove le lingue si mescolano, ma anche un messaggio che parla della necessità di dialogo.
La frattura diagonale con cui il testo è diviso è la metafora della storia della comunità spezzata dalla guerra. Due parti che si riuniscono, il senso della parola non può non far pensare alla storia recente, alle memorie di questi luoghi, ma è anche uno sguardo al tempo presente e più di tutto un auspicio per il futuro.
C’è la consapevolezza dell'esperienza che il conflitto ha lasciato nella comunità e accanto la consapevolezza che può esserci un altro avvenire, anche grazie a tanti giovani come Irvin che lavorano per realizzare uno sviluppo sostenibile e consapevole per il turismo di questo territorio.
Il murale testuale realizzato da Manu Invisible, già di per sé di grande impatto comunicativo, si carica di nuovi sensi grazie all’intervento pittorico che da corpo alle lettere. L'artista ha trovato nella storia della comunità e nel territorio l'ispirazione per questo intervento. La scala cromatica dell’intero lavoro si ispira alla natura circostante, al rigoglioso verde delle campagne intorno alla città e rappresenta un omaggio alla nuova attitudine turistica che il territorio vuole per sé.
Si riconosce all'interno della parola CBИJES il paesaggio lungo il fiume Drina, il confine naturale che divide la Bosnia Erzegovina dalla Serbia. Le sponde del fiume sono il limite naturale tra due popolazioni, ma anche la soglia che le unisce.
Mentre Manu Invisible è all’opera, Alessio Cabras documenta ogni azione e raccoglie nuove immagini per un reportage di ritratti degli abitanti di questo luogo. Durante la realizzazione del grande intervento murale la presenza degli artisti nella piccola comunità di Srebenica non passa inosservata e sono in tanti che si avvicinano per conoscere e per seguire da vicino il processo d’esecuzione dell'opera.
Il viavai quotidiano che la presenza degli artisti suscita nella comunità diventa un'occasione per incontrare più intensamente alcuni degli abitanti di Srebrenica e conoscere le loro storie attraverso l'obiettivo fotografico di Alessio Cabras.
Il murale nei pressi della scuola non è l’unica opera realizzata da Manu Invisible per Srebrenica, un secondo lavoro domina dall'alto la parte più vecchia della città e si affaccia verso la nuova moschea che sorge sulle fondamenta di una più antica oggi distrutta.
Un intervento di grande impatto visivo, dipinto su un muro di mattoni di una costruzione mai abitata, che recita semplicemente la parola “DIALOGUE”. Dialogo.
L'artista con il suo stile inconfondibile combina il lettering con aspetti pittorici creando un'unione dei principali simboli religiosi all’interno della parola stessa.
Il risultato è un efficace metafora per un tema più che mai attuale nel nostro tempo dominato dai contrasti religiosi.
Il dialogo infatti è la principale possibilità per superare e risolvere positivamente ogni conflitto.
L'artista utilizza il linguaggio essenziale della parola, ed alcune lettere si trasformano in simboli per caricare di potenza comunicativa il messaggio.
Alcune lettere della parola "dialogue" diventano la croce, la stella di Davide e la mezza luna che coesistono insieme nella parola DIALOGUE.
L'undici luglio ricorre l'anniversario del massacro di Srebrenica, sono trascorsi 22 anni da quella tragedia che impressionò il mondo intero. Quest'anno i bambini della scuola elementare e tutta la comunità di Srebrenica, così come i turisti che la visiteranno potranno riflettere e guardare avanti anche osservando le opere che Manu Invisible ha donato alla città.
Stefano Melis (Cagliari, 1989) si caratterizza per una ricerca artistica orientata verso la sperimentazione di tecniche e format differenti: ha un brillante sguardo fotografico, è un originale performer di arte relazionale (progetto CucineAbitabili) e soprattutto si afferma nel percorso di graphic designer e illustratore.
Tutte queste declinazioni del suo fare artistico sono accomunate dalla qualità di essere un sorprendente osservatore della realtà, dotato di fervida immaginazione e spontanea ironia. Il suo sguardo è capace di cogliere i paradossi della società contemporanea, consumistica e virtuale, di prendersi gioco della società dell’immagine per restituire alla realtà un mondo puro e disincantato.
Nelle sue opere si colgono richiami all’estetica della comunicazione di massa, dalle réclame pubblicitarie d’epoca ai riferimenti alla grafica vintage e alla Pop Art.
Stefano Melis produce immagini carismatiche e attraenti, spiccano i colori brillanti a contrasto e le geometrie taglienti. Descrive la realtà con profondità e voyeurismo, soffermandosi sui particolari con linee morbide e tinte accostate tono su tono.
L'elaborazione digitale di ciascun disegno prevede la scansione e l'uso di carte colorate che conferiscono ai soggetti una consistenza intrigante, quasi materica. Il suo è un tentativo di restituire col digitale l’esperienza concreta e sensoriale del collage di carte.
Soffermandosi sui singoli lavori ci si rende conto che i soggetti raccontano minute storie, sono spesso rappresentati in situazioni audaci e prospettive fuori dal comune che traggono ispirazione dal mondo della moda, dello spettacolo, dello sport e della danza. Le figure fluttuano in uno spazio metafisico e si impongono con tutta la loro vitalità mettendo in risalto il dinamismo estetico del corpo in movimento. La rappresentazione è sempre ambivalente, si può ribaltare, scomporre e rimontare in un gioco senza fine di simmetrie e allusioni. Nei ritratti, inquadrati sempre di tre quarti, spicca l’attenzione al dettaglio e la sintesi formale ottenuta dal rilievo delle ombre. L’immagine è capace di indagare la dimensione interiore dei soggetti attraverso accostamenti di toni e colori decisi che conferiscono ai
soggetti un forte carattere iconico.
Tutte queste declinazioni del suo fare artistico sono accomunate dalla qualità di essere un sorprendente osservatore della realtà, dotato di fervida immaginazione e spontanea ironia. Il suo sguardo è capace di cogliere i paradossi della società contemporanea, consumistica e virtuale, di prendersi gioco della società dell’immagine per restituire alla realtà un mondo puro e disincantato.
Nelle sue opere si colgono richiami all’estetica della comunicazione di massa, dalle réclame pubblicitarie d’epoca ai riferimenti alla grafica vintage e alla Pop Art.
Stefano Melis produce immagini carismatiche e attraenti, spiccano i colori brillanti a contrasto e le geometrie taglienti. Descrive la realtà con profondità e voyeurismo, soffermandosi sui particolari con linee morbide e tinte accostate tono su tono.
L'elaborazione digitale di ciascun disegno prevede la scansione e l'uso di carte colorate che conferiscono ai soggetti una consistenza intrigante, quasi materica. Il suo è un tentativo di restituire col digitale l’esperienza concreta e sensoriale del collage di carte.
Soffermandosi sui singoli lavori ci si rende conto che i soggetti raccontano minute storie, sono spesso rappresentati in situazioni audaci e prospettive fuori dal comune che traggono ispirazione dal mondo della moda, dello spettacolo, dello sport e della danza. Le figure fluttuano in uno spazio metafisico e si impongono con tutta la loro vitalità mettendo in risalto il dinamismo estetico del corpo in movimento. La rappresentazione è sempre ambivalente, si può ribaltare, scomporre e rimontare in un gioco senza fine di simmetrie e allusioni. Nei ritratti, inquadrati sempre di tre quarti, spicca l’attenzione al dettaglio e la sintesi formale ottenuta dal rilievo delle ombre. L’immagine è capace di indagare la dimensione interiore dei soggetti attraverso accostamenti di toni e colori decisi che conferiscono ai
soggetti un forte carattere iconico.
A Cagliari un collettivo di artisti ha appena terminato un’opera di grande impatto all’interno degli spazi sportivi del CUS.
L’enorme murale di 35 metri di lunghezza per 5 di altezza è dedicato a Maria Lai e sviluppa un intreccio visivo ricco di riferimenti per rendere omaggio all’artista di Ulassai.
La realizzazione è caratterizzata da un forte spirito di gruppo, l’impresa collettiva ha visto impegnati per diverse settimane le crew: Sardos Frades Crew, Undici Sei Squad, Neo-Ink.
Attraverso molteplici impulsi, gli artisti accostano stili e tecniche eterogenei, dai graffiti firmati da Gibbo, Matz, Tarma, Idea, Jilose, Iatus e Nero, allo scenario di sfondo dipinto da Grim, Gianluca Gelsomino, Hadmar e Paul.
La sintesi è un’opera corale, in cui prevale la volontà comune di fondere le caratteristiche espressive individuali intorno ad alcuni puntuali riferimenti a Maria Lai e alla sua poetica.
Il dipinto è scandito su due piani, in grande rilievo i graffiti tridimensionali con le firme degli autori si staccano sui contorni lineari del paesaggio ogliastrino. La scelta cromatica rimanda essenzialmente a toni rigorosi tratti dalle opere dell’artista. Nei lati spiccano due figure di pastori, la loro fisionomia è ispirata dalle opere pittoriche degli anni ’60. Sono intenti a trattenere i fili che legano tutta la composizione e richiamano l’azione partecipativa “Legarsi alla montagna” del 1981, rievocando così la dimensione collettiva e sociale dell’opera di Maria Lai.
Nella parte superiore c’è un intenso ritratto di Maria Lai, le sue mani operose incrociano i fili e abbracciano idealmente l’intera composizione. Il suo viso, entrato ormai a far parte della memoria collettiva attraverso una celebre fotografia di Daniela Zedda, è accostato alla rappresentazione del profilo del paesaggio. Si riconosce l’inconfondibile forma dei tacchi d’ogliastra popolato di caprette, raffigurate secondo lo schema bidimensionale tipico delle tessiture della cooperativa Su Marmuri.
Ogni elemento del murale appare legato all’altro, dai graffitti della base agli elementi del paesaggio sovrastante in cui si staglia bianchissima la luna piena.
La rielaborazione stilistica che il collettivo d’artisti sviluppa intorno alla figura di Maria Lai crea un intreccio narrativo ricchissimo, che sottolinea, ancora una volta, l’eredità culturale che il carisma dell’artista ha lasciato nelle nuove generazioni. ..A Maria Lai..
L’enorme murale di 35 metri di lunghezza per 5 di altezza è dedicato a Maria Lai e sviluppa un intreccio visivo ricco di riferimenti per rendere omaggio all’artista di Ulassai.
La realizzazione è caratterizzata da un forte spirito di gruppo, l’impresa collettiva ha visto impegnati per diverse settimane le crew: Sardos Frades Crew, Undici Sei Squad, Neo-Ink.
Attraverso molteplici impulsi, gli artisti accostano stili e tecniche eterogenei, dai graffiti firmati da Gibbo, Matz, Tarma, Idea, Jilose, Iatus e Nero, allo scenario di sfondo dipinto da Grim, Gianluca Gelsomino, Hadmar e Paul.
La sintesi è un’opera corale, in cui prevale la volontà comune di fondere le caratteristiche espressive individuali intorno ad alcuni puntuali riferimenti a Maria Lai e alla sua poetica.
Il dipinto è scandito su due piani, in grande rilievo i graffiti tridimensionali con le firme degli autori si staccano sui contorni lineari del paesaggio ogliastrino. La scelta cromatica rimanda essenzialmente a toni rigorosi tratti dalle opere dell’artista. Nei lati spiccano due figure di pastori, la loro fisionomia è ispirata dalle opere pittoriche degli anni ’60. Sono intenti a trattenere i fili che legano tutta la composizione e richiamano l’azione partecipativa “Legarsi alla montagna” del 1981, rievocando così la dimensione collettiva e sociale dell’opera di Maria Lai.
Nella parte superiore c’è un intenso ritratto di Maria Lai, le sue mani operose incrociano i fili e abbracciano idealmente l’intera composizione. Il suo viso, entrato ormai a far parte della memoria collettiva attraverso una celebre fotografia di Daniela Zedda, è accostato alla rappresentazione del profilo del paesaggio. Si riconosce l’inconfondibile forma dei tacchi d’ogliastra popolato di caprette, raffigurate secondo lo schema bidimensionale tipico delle tessiture della cooperativa Su Marmuri.
Ogni elemento del murale appare legato all’altro, dai graffitti della base agli elementi del paesaggio sovrastante in cui si staglia bianchissima la luna piena.
La rielaborazione stilistica che il collettivo d’artisti sviluppa intorno alla figura di Maria Lai crea un intreccio narrativo ricchissimo, che sottolinea, ancora una volta, l’eredità culturale che il carisma dell’artista ha lasciato nelle nuove generazioni. ..A Maria Lai..
STAND-OFF è la rappresentazione di uno spazio di transizione.
Le presenze che si impongono nello spazio pittorico si manifestano come forme ritmiche sospese in una dimensione di passaggio.
Le enormi architetture disabitate delle precedenti opere di Vincenzo Grosso, decostruite e ridotte a frammenti, campeggiano ora in territori – ideali o reali - ben più vasti della dimensione estetica raffigurata nella tela.
Il cambiamento rispetto alle opere precedenti è tutto in questa trasformazione, non c'è più l'evocazione del paesaggio urbano, è il tempo della transizione, il passaggio da un modo di essere a un altro, da una situazione verso una nuova e diversa. La ricerca di una nuova condizione di equilibrio.
Ogni opera non è dunque la rappresentazione di uno spazio fisico ma è una specie di catalizzatore di domande sulla natura dell'immagine stessa, uno spazio sconfinato che ci permette di interrogarci su concetti più profondi per l'animo umano: tempo, rappresentazione, figurativa o astratta e soprattutto, senza dare risposte, sull'ansia di infinito che inseguiamo costantemente.
Le presenze che si impongono nello spazio pittorico si manifestano come forme ritmiche sospese in una dimensione di passaggio.
Le enormi architetture disabitate delle precedenti opere di Vincenzo Grosso, decostruite e ridotte a frammenti, campeggiano ora in territori – ideali o reali - ben più vasti della dimensione estetica raffigurata nella tela.
Il cambiamento rispetto alle opere precedenti è tutto in questa trasformazione, non c'è più l'evocazione del paesaggio urbano, è il tempo della transizione, il passaggio da un modo di essere a un altro, da una situazione verso una nuova e diversa. La ricerca di una nuova condizione di equilibrio.
Ogni opera non è dunque la rappresentazione di uno spazio fisico ma è una specie di catalizzatore di domande sulla natura dell'immagine stessa, uno spazio sconfinato che ci permette di interrogarci su concetti più profondi per l'animo umano: tempo, rappresentazione, figurativa o astratta e soprattutto, senza dare risposte, sull'ansia di infinito che inseguiamo costantemente.
"Il sogno di mia madre"
opere di Silvia Corda e Donatella Pau
19 giugno / 5 luglio 2015
EXMA - Exhibiting and Moving Arts
Via San Lucifero, 71 Cagliari
Il sogno di mia madre è il progetto artistico che fa dialogare i dipinti di Silvia Corda con l'opera scultorea di Donatella Pau.
Silvia Corda ha dipinto il tempo sospeso, le sue tele pretendono silenzio, evocano calma, invitano alla contemplazione. Il suo sguardo si posa su un ambiente semplice, colto nella sua intimità. Non servono tante parole, basta solo osservare l’immagine che si mostra per ciò che è. Ma forse non tutto è lì, leggibile sulla superficie.
Nella luce che bagna la scena dando forma ai panneggi dei tessuti si scorgono lievi variazioni atmosferiche, alterazioni cromatiche appena percettibili che segnano l'attesa, il tempo che si dilata, e la sua assenza.
Quasi per contrasto, lo spazio è abitato delle sculture di Donatella Pau. I soggetti sono anime femminili dotate di grande forza espressiva. Figure appena abbozzate tra le quali si instaura un discreto dialogo di sguardi e rimandi visivi, quasi una narrazione che si rivela con dettagli minimi nelle pose serene.
La costruzione assembla materie diverse: pezzetti di stoffe, legni ritrovati, ferro, lamine metalliche ma sembrano piuttosto fatte di sogni e di poesia.
Le esili figure raccontano una mescolanza di influenze e sono capaci di evocare riflessioni profonde, di coinvolgere in un mondo sognato ma non privo di tensione. Si ha la sensazione che le opere tentino costantemente di trasformarsi tanto appaiono leggere e precarie, in attesa di divenire qualcosa d’altro
Tra le due artiste, impegnate in ambiti espressivi così distanti l'elemento comune sembra essere la volontà di dare uno spazio al visibile e al non visibile, per indagare il ruolo della memoria, la relazione con il tempo e l’incertezza del divenire.
opere di Silvia Corda e Donatella Pau
19 giugno / 5 luglio 2015
EXMA - Exhibiting and Moving Arts
Via San Lucifero, 71 Cagliari
Il sogno di mia madre è il progetto artistico che fa dialogare i dipinti di Silvia Corda con l'opera scultorea di Donatella Pau.
Silvia Corda ha dipinto il tempo sospeso, le sue tele pretendono silenzio, evocano calma, invitano alla contemplazione. Il suo sguardo si posa su un ambiente semplice, colto nella sua intimità. Non servono tante parole, basta solo osservare l’immagine che si mostra per ciò che è. Ma forse non tutto è lì, leggibile sulla superficie.
Nella luce che bagna la scena dando forma ai panneggi dei tessuti si scorgono lievi variazioni atmosferiche, alterazioni cromatiche appena percettibili che segnano l'attesa, il tempo che si dilata, e la sua assenza.
Quasi per contrasto, lo spazio è abitato delle sculture di Donatella Pau. I soggetti sono anime femminili dotate di grande forza espressiva. Figure appena abbozzate tra le quali si instaura un discreto dialogo di sguardi e rimandi visivi, quasi una narrazione che si rivela con dettagli minimi nelle pose serene.
La costruzione assembla materie diverse: pezzetti di stoffe, legni ritrovati, ferro, lamine metalliche ma sembrano piuttosto fatte di sogni e di poesia.
Le esili figure raccontano una mescolanza di influenze e sono capaci di evocare riflessioni profonde, di coinvolgere in un mondo sognato ma non privo di tensione. Si ha la sensazione che le opere tentino costantemente di trasformarsi tanto appaiono leggere e precarie, in attesa di divenire qualcosa d’altro
Tra le due artiste, impegnate in ambiti espressivi così distanti l'elemento comune sembra essere la volontà di dare uno spazio al visibile e al non visibile, per indagare il ruolo della memoria, la relazione con il tempo e l’incertezza del divenire.
Anna Marceddu - FIORI DI CAMPO, Viaggio fotografico tra i rom
TRIGU, via Corte d'Appello 27, CAGLIARI
11 giugno / 21 giugno 2015
Per dodici anni Anna Marceddu ha frequentato i campi nomadi di Cagliari, dapprima in via San Paolo alle porte della città, e in seguito quelli di Selargius e Monserrato. Ha fotografato i volti di donne e bambini, scattato immagini della vita in baracche e roulottes.
«All'inizio, quando cercavo di avvicinarmi al campo, mi lanciavano i sassi per farmi allontanare. Non ho mai voluto farmi rappresentare da intermediari o organizzazioni, perché il mio lavoro doveva basarsi sulla fiducia reciproca, sul rapporto interpersonale».
In questo modo ha raccolto storie e testimonianze, documentando le difficili condizioni di vita, raccontando la povertà, la fatica e la gioia di vivere.
Nelle immagini emerge in particolare il ruolo delle donne e la cura del bene più prezioso per le famiglie rom: i bambini e le bambine.
“Fiori di campo” è un viaggio fotografico per provare a conoscere la cultura di una comunità circondata da stereotipi e discorsi d'odio.
Lo sguardo fotografico di Anna Marceddu sollecita a superare paure e preconcetti ma sopratutto è un invito a ribaltare il punto di osservazione perché possiamo vedere, senza pregiudizi, solo la bellezza della vita, la stessa che brilla negli occhi sorridenti di tutti i bambini.
TRIGU, via Corte d'Appello 27, CAGLIARI
11 giugno / 21 giugno 2015
Per dodici anni Anna Marceddu ha frequentato i campi nomadi di Cagliari, dapprima in via San Paolo alle porte della città, e in seguito quelli di Selargius e Monserrato. Ha fotografato i volti di donne e bambini, scattato immagini della vita in baracche e roulottes.
«All'inizio, quando cercavo di avvicinarmi al campo, mi lanciavano i sassi per farmi allontanare. Non ho mai voluto farmi rappresentare da intermediari o organizzazioni, perché il mio lavoro doveva basarsi sulla fiducia reciproca, sul rapporto interpersonale».
In questo modo ha raccolto storie e testimonianze, documentando le difficili condizioni di vita, raccontando la povertà, la fatica e la gioia di vivere.
Nelle immagini emerge in particolare il ruolo delle donne e la cura del bene più prezioso per le famiglie rom: i bambini e le bambine.
“Fiori di campo” è un viaggio fotografico per provare a conoscere la cultura di una comunità circondata da stereotipi e discorsi d'odio.
Lo sguardo fotografico di Anna Marceddu sollecita a superare paure e preconcetti ma sopratutto è un invito a ribaltare il punto di osservazione perché possiamo vedere, senza pregiudizi, solo la bellezza della vita, la stessa che brilla negli occhi sorridenti di tutti i bambini.
ZENÌA,
Mostra ospitata al MURATS, Samugheo dal 27 aprile al 01 giugno 2014
>> (catalogo integrale)
Zenìa
[dal greco γενεά «origine, razza»]. – Nell’uso antico e letterario, stirpe, razza, complesso di persone della stessa origine.
Identità oltre gli stereotipi
Il concetto di identità, la cui essenza è spesso tradotta da interpretazioni obsolete, o ancora peggio, ridotta a banalizzazioni caricaturali è un tema per il quale è necessario un continuo impegno di riscrittura.
A livello individuale e per estensione a livello collettivo, l'identità non è un dato di fatto stabile e costante, ma un processo in divenire che si costituisce a partire da una rilettura e interpretazione del proprio passato. Le forme di questo lavoro di riscrittura della memoria storica di una comunità sono sempre ancorate al presente, ma anche, in modo forse ancor più sostanziale, ad una costruzione prospettica che guarda al futuro, all'immagine di noi che in quel futuro vogliamo proiettare.
I sardi hanno molto da raccontare a sé stessi e agli altri, un racconto che ha per protagonista l'intera comunità, sa Zenìa, le donne e gli uomini dell'isola.
La mostra allestita per il MURATS di Samugheo è una riflessione sull’immagine identitaria che la comunità vuole assumere e trasmettere.
Otto artisti contemporanei hanno dialogato visivamente con importanti personalità della storia e della cultura della Sardegna, personaggi che sono la base e l’ancoraggio simbolico su cui fondiamo la costruzione dell'identità del popolo sardo.
Se è vero che ogni comunità rappresenta se stessa nella capacità di riconoscere la propria storia, di produrre e tramandare valori condivisi per continuare a scrivere il proprio racconto e la propria cultura, allora le opere che compongono la mostra sono il tentativo di ricercare, osservare e rilevare quei segni della memoria collettiva capaci di rappresentare la comunità sarda nelle sue specificità.
Gli artisti e le opere
Per dare risalto al momento più drammatico del fallimento della rivolta di Ampsicora e del figlio Iosto contro l'esercito Romano, Nicola Caredda costruisce un invenzione scenica che coglie i protagonisti nell'atto estremo del sacrificio della propria vita. L'artista dipinge un ambiente denso di particolari che mescolano elementi provenienti da vocabolari espressivi lontani, producendo una suggestione esaltata da una potente carica enigmatica. La rappresentazione pittorica di Caredda trasfigura la realtà storica restituendo un paesaggio immaginario carico di significati simbolici tanto evocativi quanto misteriosi.
Vincenzo Pattusi, presenta una galleria di tre dipinti secondo lo schema del ritratto celebrativo e dinastico. I protagonisti, Barisone I, Barisone II ed Eleonora d'Arborea sono raffigurati con anacronistici costumi rinascimentali che sono una diretta citazione delle falsificazioni seicentesche dei notabili giudicali.
In un gioco di colorati rimandi al proprio immaginario figurativo, Pattusi rievoca nei dettagli dei volti e delle vesti dei personaggi ritratti alcuni spunti narrativi, alimentando così la messinscena di una sagace ambiguità tra realtà storica e brillante invenzione.
Gianluca Gelsomino, si serve di un ritratto molto noto di Leonardo Alagon per elaborare una personale visione in cui combina elementi simbolici della storia del marchese di Oristano con la fedele rappresentazione del suo aspetto. L'artista dipinge il ritratto utilizzando una stretta gamma cromatica propria del personale vocabolario espressivo e con lo stesso approccio racconta l'autore della Storia di Sardegna Giuseppe Manno, il cui volto è rappresentato graficamente da un ritratto d'impostazione fotografica associato a rimandi ad episodi della sua vita come il suo interesse per le ferrovie e la passione per il violino.
Per delineare una rappresentazione di Giovanni Maria Angioy, Gianni Casagrande, esalta un episodio storico della vita del protagonista immaginando che per servire i propri ideali il condottiero abbia combattuto al fianco degli insorti di Haiti. La volontà di interpretare l'azione politica di Angioy prende forma nell'immagine del rivoluzionario sardo che per estirpare il dispotismo in ogni sua forma conduce i combattenti haitiani nella battaglia per la libertà.
Casagrande compone i suoi dipinti rafforzando l'apparato visivo con una struttura letteraria che è parte fondante della creazione artistica. Così, nel tentativo di raccontare Sebastiano Satta, elabora una traccia narrativa immaginando la reazione del vecchio poeta nel vedere i propri versi tradotti attraverso la tecnica del cinema. Casagrande compone un ritratto di fotogrammi che, con sguardo lirico e partecipe, restituisce la profondità d'animo del poeta barbaricino.
Non si conoscono raffigurazioni del poeta Gerolamo Araolla e sono molto scarse anche le notizie sulla sua vita, tuttavia Gianni Nieddu trascurando qualsiasi intento celebrativo ne abbozza un ritratto umano declinato in una serie di quadretti antisolenni tracciati sinteticamente su carta da lucido. Nieddu raffigura diversi aspetti, anche molto intimi dell'Araolla, agili istantanee dalla vita del poeta-ecclesiastico che lasciano emergere tutta la qualità poetica dell'artista algherese.
In un gioco per contrasti, il premio Nobel per la Letteratura Grazia Deledda, della quale si conoscono invece moltitudini di immagini e la sua attività letteraria è oggetto di studio approfondito, è rappresentata in maniera aniconica, sintetizzata sulla tela dalle lettere “MOR”, contenute nelle parole “amore” e “morte” che sono presenze significative dell'opera della scrittrice nuorese.
Narcisa Monni si confronta con l'immagine di Antonio Gramsci trasformando con rapidi segni la sua immagine fotografica più nota in una icona pop. Il colore scivola sulla superficie impermeabile del supporto in modo potente e deciso perdendosi in rivoli con la complicità della lucentezza metallica. L'azione pittorica è fulminea e l'identificazione del personaggio è immediata. Il ritratto di Gramsci è accompagnato dall'immagine della sua famiglia: la moglie Julka e i figli Delio e Giuliano, rivelando il lato più intimo e umano del personaggio storico. Narcisa Monni sembra quasi suggerire un avvicinamento al pensiero di Gramsci attraverso le Lettere dal carcere, il carteggio rivolto principalmente ai familiari, che può essere considerato un racconto della sua vita.
La stessa forza espressiva si ritrova nell'opera dedicata al giurista e scrittore Salvatore Satta, autore dell'intensa e critica rappresentazione letteraria della città di Nuoro dei primi del Novecento, con “Il giorno del giudizio”.
La statua del Redentore collocata sulla cima del Monte Ortobene, costruita pittoricamente con taglio fotografico da rapidissime pennellate, diviene emblema di una città intera e della sua recente storia.
I ritratti di Emilio Lussu e Giuseppe Dessì eseguiti da Giovanni Sanna sono caratterizzati da una riduzione tonale che enfatizza l'impianto narrativo. Sulla tela si manifesta la rappresentazione celebrativa dei protagonisti e nel contempo la superficie pittorica sedimenta una stratificazione di simboli, di riferimenti e di frammenti letterari tratti direttamente dalla vita e dalle opere dei celebri personaggi. Giovanni Sanna evoca il ricordo dei due protagonisti dell'impegno politico e della letteratura in Sardegna rafforzando la potenza celebrativa dell'immagine con l'uso della parola. La scelta dei testi e le grafie giustapposte ai dipinti sono però opera di mani diverse da quelle dell'artista che cerca così di comporre un ritratto sociale delle due personalità.
Manuelle Mureddu con l'animato stile grafico che lo contraddistingue illustra una composizione che ricrea le vicende del maestro indiscusso della poesia a bolu Remundu Piras. Il medaglione si compone di riferimenti che richiamano direttamente alla storia personale del poeta e dei protagonisti della poesia orale estemporanea. C'è con la presenza del suo mentore Antoni Cubeddu, l'evocazione delle feste popolari in cui quest'arte si pratica ed altri elementi tratti dal quotidiano del protagonista come ad esempio l'automobile con la quale il “cantadore” si recava alle gare poetiche. Anche se di Remundu Piras non ci mostra il volto, Mureddu dimostra di conoscere approfonditamente il personaggio con cui si confronta pertanto senza idealizzare il poeta ci restituisce uno sfaccettato ritratto umano.
Mostra ospitata al MURATS, Samugheo dal 27 aprile al 01 giugno 2014
>> (catalogo integrale)
Zenìa
[dal greco γενεά «origine, razza»]. – Nell’uso antico e letterario, stirpe, razza, complesso di persone della stessa origine.
Identità oltre gli stereotipi
Il concetto di identità, la cui essenza è spesso tradotta da interpretazioni obsolete, o ancora peggio, ridotta a banalizzazioni caricaturali è un tema per il quale è necessario un continuo impegno di riscrittura.
A livello individuale e per estensione a livello collettivo, l'identità non è un dato di fatto stabile e costante, ma un processo in divenire che si costituisce a partire da una rilettura e interpretazione del proprio passato. Le forme di questo lavoro di riscrittura della memoria storica di una comunità sono sempre ancorate al presente, ma anche, in modo forse ancor più sostanziale, ad una costruzione prospettica che guarda al futuro, all'immagine di noi che in quel futuro vogliamo proiettare.
I sardi hanno molto da raccontare a sé stessi e agli altri, un racconto che ha per protagonista l'intera comunità, sa Zenìa, le donne e gli uomini dell'isola.
La mostra allestita per il MURATS di Samugheo è una riflessione sull’immagine identitaria che la comunità vuole assumere e trasmettere.
Otto artisti contemporanei hanno dialogato visivamente con importanti personalità della storia e della cultura della Sardegna, personaggi che sono la base e l’ancoraggio simbolico su cui fondiamo la costruzione dell'identità del popolo sardo.
Se è vero che ogni comunità rappresenta se stessa nella capacità di riconoscere la propria storia, di produrre e tramandare valori condivisi per continuare a scrivere il proprio racconto e la propria cultura, allora le opere che compongono la mostra sono il tentativo di ricercare, osservare e rilevare quei segni della memoria collettiva capaci di rappresentare la comunità sarda nelle sue specificità.
Gli artisti e le opere
Per dare risalto al momento più drammatico del fallimento della rivolta di Ampsicora e del figlio Iosto contro l'esercito Romano, Nicola Caredda costruisce un invenzione scenica che coglie i protagonisti nell'atto estremo del sacrificio della propria vita. L'artista dipinge un ambiente denso di particolari che mescolano elementi provenienti da vocabolari espressivi lontani, producendo una suggestione esaltata da una potente carica enigmatica. La rappresentazione pittorica di Caredda trasfigura la realtà storica restituendo un paesaggio immaginario carico di significati simbolici tanto evocativi quanto misteriosi.
Vincenzo Pattusi, presenta una galleria di tre dipinti secondo lo schema del ritratto celebrativo e dinastico. I protagonisti, Barisone I, Barisone II ed Eleonora d'Arborea sono raffigurati con anacronistici costumi rinascimentali che sono una diretta citazione delle falsificazioni seicentesche dei notabili giudicali.
In un gioco di colorati rimandi al proprio immaginario figurativo, Pattusi rievoca nei dettagli dei volti e delle vesti dei personaggi ritratti alcuni spunti narrativi, alimentando così la messinscena di una sagace ambiguità tra realtà storica e brillante invenzione.
Gianluca Gelsomino, si serve di un ritratto molto noto di Leonardo Alagon per elaborare una personale visione in cui combina elementi simbolici della storia del marchese di Oristano con la fedele rappresentazione del suo aspetto. L'artista dipinge il ritratto utilizzando una stretta gamma cromatica propria del personale vocabolario espressivo e con lo stesso approccio racconta l'autore della Storia di Sardegna Giuseppe Manno, il cui volto è rappresentato graficamente da un ritratto d'impostazione fotografica associato a rimandi ad episodi della sua vita come il suo interesse per le ferrovie e la passione per il violino.
Per delineare una rappresentazione di Giovanni Maria Angioy, Gianni Casagrande, esalta un episodio storico della vita del protagonista immaginando che per servire i propri ideali il condottiero abbia combattuto al fianco degli insorti di Haiti. La volontà di interpretare l'azione politica di Angioy prende forma nell'immagine del rivoluzionario sardo che per estirpare il dispotismo in ogni sua forma conduce i combattenti haitiani nella battaglia per la libertà.
Casagrande compone i suoi dipinti rafforzando l'apparato visivo con una struttura letteraria che è parte fondante della creazione artistica. Così, nel tentativo di raccontare Sebastiano Satta, elabora una traccia narrativa immaginando la reazione del vecchio poeta nel vedere i propri versi tradotti attraverso la tecnica del cinema. Casagrande compone un ritratto di fotogrammi che, con sguardo lirico e partecipe, restituisce la profondità d'animo del poeta barbaricino.
Non si conoscono raffigurazioni del poeta Gerolamo Araolla e sono molto scarse anche le notizie sulla sua vita, tuttavia Gianni Nieddu trascurando qualsiasi intento celebrativo ne abbozza un ritratto umano declinato in una serie di quadretti antisolenni tracciati sinteticamente su carta da lucido. Nieddu raffigura diversi aspetti, anche molto intimi dell'Araolla, agili istantanee dalla vita del poeta-ecclesiastico che lasciano emergere tutta la qualità poetica dell'artista algherese.
In un gioco per contrasti, il premio Nobel per la Letteratura Grazia Deledda, della quale si conoscono invece moltitudini di immagini e la sua attività letteraria è oggetto di studio approfondito, è rappresentata in maniera aniconica, sintetizzata sulla tela dalle lettere “MOR”, contenute nelle parole “amore” e “morte” che sono presenze significative dell'opera della scrittrice nuorese.
Narcisa Monni si confronta con l'immagine di Antonio Gramsci trasformando con rapidi segni la sua immagine fotografica più nota in una icona pop. Il colore scivola sulla superficie impermeabile del supporto in modo potente e deciso perdendosi in rivoli con la complicità della lucentezza metallica. L'azione pittorica è fulminea e l'identificazione del personaggio è immediata. Il ritratto di Gramsci è accompagnato dall'immagine della sua famiglia: la moglie Julka e i figli Delio e Giuliano, rivelando il lato più intimo e umano del personaggio storico. Narcisa Monni sembra quasi suggerire un avvicinamento al pensiero di Gramsci attraverso le Lettere dal carcere, il carteggio rivolto principalmente ai familiari, che può essere considerato un racconto della sua vita.
La stessa forza espressiva si ritrova nell'opera dedicata al giurista e scrittore Salvatore Satta, autore dell'intensa e critica rappresentazione letteraria della città di Nuoro dei primi del Novecento, con “Il giorno del giudizio”.
La statua del Redentore collocata sulla cima del Monte Ortobene, costruita pittoricamente con taglio fotografico da rapidissime pennellate, diviene emblema di una città intera e della sua recente storia.
I ritratti di Emilio Lussu e Giuseppe Dessì eseguiti da Giovanni Sanna sono caratterizzati da una riduzione tonale che enfatizza l'impianto narrativo. Sulla tela si manifesta la rappresentazione celebrativa dei protagonisti e nel contempo la superficie pittorica sedimenta una stratificazione di simboli, di riferimenti e di frammenti letterari tratti direttamente dalla vita e dalle opere dei celebri personaggi. Giovanni Sanna evoca il ricordo dei due protagonisti dell'impegno politico e della letteratura in Sardegna rafforzando la potenza celebrativa dell'immagine con l'uso della parola. La scelta dei testi e le grafie giustapposte ai dipinti sono però opera di mani diverse da quelle dell'artista che cerca così di comporre un ritratto sociale delle due personalità.
Manuelle Mureddu con l'animato stile grafico che lo contraddistingue illustra una composizione che ricrea le vicende del maestro indiscusso della poesia a bolu Remundu Piras. Il medaglione si compone di riferimenti che richiamano direttamente alla storia personale del poeta e dei protagonisti della poesia orale estemporanea. C'è con la presenza del suo mentore Antoni Cubeddu, l'evocazione delle feste popolari in cui quest'arte si pratica ed altri elementi tratti dal quotidiano del protagonista come ad esempio l'automobile con la quale il “cantadore” si recava alle gare poetiche. Anche se di Remundu Piras non ci mostra il volto, Mureddu dimostra di conoscere approfonditamente il personaggio con cui si confronta pertanto senza idealizzare il poeta ci restituisce uno sfaccettato ritratto umano.
MASTROS DE LINNA
(prefazione)
Mastros de linna, sono piccole grandi storie di uomini e artigiani. Angelino Mereu sospinto da una profonda curiosità per la storia e le tradizioni più autentiche della sua Sardegna ha svolto un lavoro di ricerca sul campo, prezioso e unico, che restituisce in questo libro con una presentazione dell’ingegno e della creatività che ruota intorno all’antico mestiere del falegname nel suo paese d’origine.
Orani, piccolo paese al centro della Sardegna, è un luogo di gente operosa, con uno sguardo accurato, quasi da antropologo, l’autore intreccia il racconto di tecniche e metodi artigiani con le vicende umane di abili maestri.
Nasce così un singolare resoconto storico, che a tratti si propone con la vivacità del racconto e che si compone specialmente di storie minime ritrovate nell'ambito dei ricordi strettamente familiari dei protagonisti, minuziosamente raccolte da Angelino Mereu in un’osservazione partecipata, tra testimonianze materiali e le memorie della gente del paese.
Emergono in questo modo intere famiglie di artigiani del passato e del presente, la descrizione meticolosa dei loro manufatti e la spiegazione degli utensili del mestiere, il tutto valorizzato da numerose fotografie che documentano e conservano una realtà silenziosa che altrimenti rischiava di essere dimenticata e travolta dal progresso.
Eppure Mastros de linna non è solo una fonte di sapere, espressione degli aspetti visibili e concreti della cultura materiale di Orani, è ancor di più un atto d’amore dell’autore per le proprie origini e per la sua gente, una relazione fortissima, fatta di ascolto attento, di appassionata raccolta di memorie e di immagini, con la consapevolezza e la saggezza di chi sa cogliere il grande valore delle cose semplici.
(prefazione)
Mastros de linna, sono piccole grandi storie di uomini e artigiani. Angelino Mereu sospinto da una profonda curiosità per la storia e le tradizioni più autentiche della sua Sardegna ha svolto un lavoro di ricerca sul campo, prezioso e unico, che restituisce in questo libro con una presentazione dell’ingegno e della creatività che ruota intorno all’antico mestiere del falegname nel suo paese d’origine.
Orani, piccolo paese al centro della Sardegna, è un luogo di gente operosa, con uno sguardo accurato, quasi da antropologo, l’autore intreccia il racconto di tecniche e metodi artigiani con le vicende umane di abili maestri.
Nasce così un singolare resoconto storico, che a tratti si propone con la vivacità del racconto e che si compone specialmente di storie minime ritrovate nell'ambito dei ricordi strettamente familiari dei protagonisti, minuziosamente raccolte da Angelino Mereu in un’osservazione partecipata, tra testimonianze materiali e le memorie della gente del paese.
Emergono in questo modo intere famiglie di artigiani del passato e del presente, la descrizione meticolosa dei loro manufatti e la spiegazione degli utensili del mestiere, il tutto valorizzato da numerose fotografie che documentano e conservano una realtà silenziosa che altrimenti rischiava di essere dimenticata e travolta dal progresso.
Eppure Mastros de linna non è solo una fonte di sapere, espressione degli aspetti visibili e concreti della cultura materiale di Orani, è ancor di più un atto d’amore dell’autore per le proprie origini e per la sua gente, una relazione fortissima, fatta di ascolto attento, di appassionata raccolta di memorie e di immagini, con la consapevolezza e la saggezza di chi sa cogliere il grande valore delle cose semplici.
Angelino Balistreri, “Materia pittorica”
Mostra personale dal 17 gennaio al 17 febbraio 2014 - Museo Sa Corona Arrubia
Angelino Balistreri è nato a Quartu Sant'Elena nel 1922, ma la sua notorietà in Sardegna è ancora molto limitata e non corrisponde al suo riconosciuto percorso artistico. Ha lasciato l'isola a soli sedici anni stabilendosi, dopo una vita intensa e ricca di esperienze, a Corridonia, nelle Marche.
Questa mostra, facendo luce su alcuni aspetti significativi del suo percorso, porta all'attenzione alcune opere, pitture e sculture, che partendo dalle prime sperimentazioni astratto-informali della fine degli anni Quaranta e Cinquanta arrivano alla sintesi formale di massima essenzialità delle opere degli anni Settanta.
L'azione artistica di Balistreri ha percorso con esiti notevoli molte strade, il suo spirito inquieto ha rielaborato un’ampia gamma di spunti stilistici del moderno, manifestando, con rara sensibilità, una coraggiosa sperimentazione tecnica e materica che rivela una versatilità eclettica straordinaria.
Quasi tutti i suoi lavori sembrano avere origine da un'energia ancestrale che affonda le radici nella travagliata stratificazione della sua vita.
Le vicende biografiche dell'artista meriterebbero un'attenzione particolare perché in esse è possibile ritrovare le ragioni per interpretare correttamente la costante sperimentazione di tecniche e di segni che caratterizza la sua produzione.
Ancora oggi, Angelino Balistreri, a 92 anni continua audacemente la sua ricerca espressiva con l'assoluta libertà che soltanto una sensibilità rara insieme ad un temperamento d'eccezione gli possono garantire.
Labirinti e informale
Intorno alla fine degli anni Quaranta, la sua libera e dinamica gestualità pittorica trova espressione nella serie dei Labirinti, creazioni astratto-informali pervase da un equilibrio compositivo ritmico e convulso.
L'esecuzione esplora, secondo automatismi inconsci, le possibilità istintive del colore e si risolve in una gestualità rapida che impegna tutto il suo corpo: polso, gomito, spalla, torsioni del busto e movimenti sulla tela posta al suolo.
La dimensione sperimentale alterna sgocciolature, sciabolate di colore e vivaci sovrapposizioni cromatiche dando forma a intricate strutture.
Sono opere drammatiche, espressione diretta dell'impulso emotivo nelle quali Angelino Balistreri comunica, nell'interazione dinamica tra segni e colore, le inquietudini di un'agitata realtà interiore.
Vestali
Il percorso espositivo continua con un insieme di opere nelle quali la forza dell’astrazione informale lascia spazio ad una meditata stilizzazione figurale. Sono le Vestali, un insieme di figure senza volto, solenni e silenziose, immerse in un'atmosfera contemplativa pervasa di sogno e mistero.
L'artista concepisce per queste presenze femminili, una sintesi formale di massima essenzialità, delineando le figure con una morbida e luminosa pastosità materica.
Le Vestali sono raccolte in uno scenario pittorico sospeso tra la visione razionale e l'invenzione ideale, caratteristica di gran parte della sua produzione figurativa che in questi lavori suggerisce il dramma di una condizione umana di solitudine e incomunicabilità.
Mostra personale dal 17 gennaio al 17 febbraio 2014 - Museo Sa Corona Arrubia
Angelino Balistreri è nato a Quartu Sant'Elena nel 1922, ma la sua notorietà in Sardegna è ancora molto limitata e non corrisponde al suo riconosciuto percorso artistico. Ha lasciato l'isola a soli sedici anni stabilendosi, dopo una vita intensa e ricca di esperienze, a Corridonia, nelle Marche.
Questa mostra, facendo luce su alcuni aspetti significativi del suo percorso, porta all'attenzione alcune opere, pitture e sculture, che partendo dalle prime sperimentazioni astratto-informali della fine degli anni Quaranta e Cinquanta arrivano alla sintesi formale di massima essenzialità delle opere degli anni Settanta.
L'azione artistica di Balistreri ha percorso con esiti notevoli molte strade, il suo spirito inquieto ha rielaborato un’ampia gamma di spunti stilistici del moderno, manifestando, con rara sensibilità, una coraggiosa sperimentazione tecnica e materica che rivela una versatilità eclettica straordinaria.
Quasi tutti i suoi lavori sembrano avere origine da un'energia ancestrale che affonda le radici nella travagliata stratificazione della sua vita.
Le vicende biografiche dell'artista meriterebbero un'attenzione particolare perché in esse è possibile ritrovare le ragioni per interpretare correttamente la costante sperimentazione di tecniche e di segni che caratterizza la sua produzione.
Ancora oggi, Angelino Balistreri, a 92 anni continua audacemente la sua ricerca espressiva con l'assoluta libertà che soltanto una sensibilità rara insieme ad un temperamento d'eccezione gli possono garantire.
Labirinti e informale
Intorno alla fine degli anni Quaranta, la sua libera e dinamica gestualità pittorica trova espressione nella serie dei Labirinti, creazioni astratto-informali pervase da un equilibrio compositivo ritmico e convulso.
L'esecuzione esplora, secondo automatismi inconsci, le possibilità istintive del colore e si risolve in una gestualità rapida che impegna tutto il suo corpo: polso, gomito, spalla, torsioni del busto e movimenti sulla tela posta al suolo.
La dimensione sperimentale alterna sgocciolature, sciabolate di colore e vivaci sovrapposizioni cromatiche dando forma a intricate strutture.
Sono opere drammatiche, espressione diretta dell'impulso emotivo nelle quali Angelino Balistreri comunica, nell'interazione dinamica tra segni e colore, le inquietudini di un'agitata realtà interiore.
Vestali
Il percorso espositivo continua con un insieme di opere nelle quali la forza dell’astrazione informale lascia spazio ad una meditata stilizzazione figurale. Sono le Vestali, un insieme di figure senza volto, solenni e silenziose, immerse in un'atmosfera contemplativa pervasa di sogno e mistero.
L'artista concepisce per queste presenze femminili, una sintesi formale di massima essenzialità, delineando le figure con una morbida e luminosa pastosità materica.
Le Vestali sono raccolte in uno scenario pittorico sospeso tra la visione razionale e l'invenzione ideale, caratteristica di gran parte della sua produzione figurativa che in questi lavori suggerisce il dramma di una condizione umana di solitudine e incomunicabilità.
“Kara”, design di Carolina Melis per Mariantonia Urru
Studio LIXI, Cagliari, dicembre 2013
Le mani dell’artigiano e la mente del designer collaborano nella realizzazione di Kara.Samugheo è uno dei centri in cui la tessitura di tappeti prende nuovo slancio, qui opera Mariantonia Urru, apprezzata per continuare una tradizione vitale e autentica traducendo in lana la ricerca di un preciso risultato estetico e formale.
Gli elementi grafici disegnati da Carolina Melis, trasposti in pattern semplici e geometrici trovano il contrappunto perfetto nella morbidezza della materia e nella sensibilità della tessitura stessa.
La peculiare texture del tessuto di lana naturale restituisce soggetti stilizzati riconducibili ad una precisa matrice iconografica popolare così nei tappeti si manifesta felicemente la relazione tra artigianato, arte e design con uno sguardo alla tradizione che risulta essere insieme rispettoso e libero.
Studio LIXI, Cagliari, dicembre 2013
Le mani dell’artigiano e la mente del designer collaborano nella realizzazione di Kara.Samugheo è uno dei centri in cui la tessitura di tappeti prende nuovo slancio, qui opera Mariantonia Urru, apprezzata per continuare una tradizione vitale e autentica traducendo in lana la ricerca di un preciso risultato estetico e formale.
Gli elementi grafici disegnati da Carolina Melis, trasposti in pattern semplici e geometrici trovano il contrappunto perfetto nella morbidezza della materia e nella sensibilità della tessitura stessa.
La peculiare texture del tessuto di lana naturale restituisce soggetti stilizzati riconducibili ad una precisa matrice iconografica popolare così nei tappeti si manifesta felicemente la relazione tra artigianato, arte e design con uno sguardo alla tradizione che risulta essere insieme rispettoso e libero.
In-between - Urban interferences
Musei Civici, Antico Palazzo di Città, Cagliari, dal 21 novembre al 17 dicembre 2013
Per mostrare i profondi processi di trasformazione dello spazio metropolitano contemporaneo e per interrogarci sulla loro sostenibilità dobbiamo confrontarci con una molteplicità di sguardi, interpretazioni, rappresentazioni, cercando di ricomprendere nei frammenti e nelle differenze, la traccia di una realtà in divenire.
In-between, Urban Interferences, evidenzia il rapporto complesso tra l’essere umano, la natura e l’architettura attraverso il contributo di artisti che riflettono sulla trasformazione e sull’identità dello spazio urbano.
L’installazione sonora di Manuel Attanasio si concretizza nella superficie della Terra, materia geologica, entità vivente, che respira, pulsa e reagisce alla continua azione umana. Le disorientanti mappe geografiche di Stefano Marongiu richiamano le strette maglie di un pianeta sotto controllo. Il visionario paesaggio urbano di Federico Carta inscena la desolazione dell’ambiente naturale ma in questo degrado si suggerisce un possibile equilibrio. Mei Ziqian indaga la complessità del mondo contemporaneo sintetizzando in un edificio immaginifico l’atmosfera e gli stati d’animo di tanti luoghi e tante storie di vita. Alessandro Carboni racconta una geografia emozionale esplorando la realtà di alcune città asiatiche e ridisegnando le suggestioni di nuovi confini e nuovi modi di relazione con lo spazio. Con sguardo dinamico Paolo Marchi esplora le periferie delle città, nelle sue visioni gli edifici sfumano e le identità s’intrecciano e si confondono. L’occupazione umana dello spazio terrestre e la distorsione del rapporto uomo-paesaggio nell’orizzonte metropolitano di Tokio è il manifesto di Stefano Fois. Le metropoli in continua espansione nello sguardo di Vincenzo Grosso esortano a cambiare presto direzione. L’installazione di Alessandro Olla indaga l’identità sonora dei territori per raccontare le complesse trasformazioni culturali, sociali, economiche causate dall’evoluzione sfrenata dei centri urbani di Cina e Africa, consumati dal cemento e dalla modernizzazione. La video installazione di Marta Anatra mostra la rivincita della natura sull’architettura abbandonata dall’uomo per riscoprire e ripensare i “vuoti urbani”.
Musei Civici, Antico Palazzo di Città, Cagliari, dal 21 novembre al 17 dicembre 2013
Per mostrare i profondi processi di trasformazione dello spazio metropolitano contemporaneo e per interrogarci sulla loro sostenibilità dobbiamo confrontarci con una molteplicità di sguardi, interpretazioni, rappresentazioni, cercando di ricomprendere nei frammenti e nelle differenze, la traccia di una realtà in divenire.
In-between, Urban Interferences, evidenzia il rapporto complesso tra l’essere umano, la natura e l’architettura attraverso il contributo di artisti che riflettono sulla trasformazione e sull’identità dello spazio urbano.
L’installazione sonora di Manuel Attanasio si concretizza nella superficie della Terra, materia geologica, entità vivente, che respira, pulsa e reagisce alla continua azione umana. Le disorientanti mappe geografiche di Stefano Marongiu richiamano le strette maglie di un pianeta sotto controllo. Il visionario paesaggio urbano di Federico Carta inscena la desolazione dell’ambiente naturale ma in questo degrado si suggerisce un possibile equilibrio. Mei Ziqian indaga la complessità del mondo contemporaneo sintetizzando in un edificio immaginifico l’atmosfera e gli stati d’animo di tanti luoghi e tante storie di vita. Alessandro Carboni racconta una geografia emozionale esplorando la realtà di alcune città asiatiche e ridisegnando le suggestioni di nuovi confini e nuovi modi di relazione con lo spazio. Con sguardo dinamico Paolo Marchi esplora le periferie delle città, nelle sue visioni gli edifici sfumano e le identità s’intrecciano e si confondono. L’occupazione umana dello spazio terrestre e la distorsione del rapporto uomo-paesaggio nell’orizzonte metropolitano di Tokio è il manifesto di Stefano Fois. Le metropoli in continua espansione nello sguardo di Vincenzo Grosso esortano a cambiare presto direzione. L’installazione di Alessandro Olla indaga l’identità sonora dei territori per raccontare le complesse trasformazioni culturali, sociali, economiche causate dall’evoluzione sfrenata dei centri urbani di Cina e Africa, consumati dal cemento e dalla modernizzazione. La video installazione di Marta Anatra mostra la rivincita della natura sull’architettura abbandonata dall’uomo per riscoprire e ripensare i “vuoti urbani”.
KEEP UP THE GOOD WORK, ciclo di mostre personali
TRIGU Lab, Cagliari, maggio/giugno 2013
#1 Vincenzo Pattusi
Vincenzo Pattusi, in arte LUDO 1948 è nato a Nuoro nel 1978, dopo la laurea in Storia dell’Arte e un master in conservazione e restauro, entra in contatto con l'ambiente artistico nuorese muovendo i primi passi nella street art e portando avanti un discorso pittorico che dai muri fa ritorno alla tele in studio in un gioco continuo di rimandi e citazioni. Ha eseguito diverse commissioni pubbliche e partecipato a numerose mostre in Italia e all’estero. Attualmente vive e lavora e Nuoro dove dal 2008 condivide con altri artisti il Seuna Lab, contenitore creativo per le sperimentazioni artistiche contemporanee.
Presenta una galleria di ritratti d’impostazione classica che si distacca dal suo originale e variopinto immaginario ispirato dalla street art. I soggetti sono piuttosto ricercati nella forma e hanno la capacità di evocare un passato sospeso nel tempo. Pattusi complica lievemente la realtà offrendo cercando spunti narrativi nei dettagli dei volti e delle vesti dei personaggi ritratti, alimentando così la scena di una sottile ambiguità.
#2 Narcisa Monni
Narcisa Monni è nata ad Alghero nel 1981, si forma all’Accademia di Belle Arti di Sassari e inizia un singolare percorso artistico che, servendosi della fotografia e dell’installazione, sperimenta il proprio corpo come medium di comunicazione e relazione col pubblico. Inizia a dipingere solo recentemente, proponendo uno stile fortemente gestuale e carico di tensioni. Vive e lavora a Sassari dove collabora con la Galleria L.E.M. Laboratorio Estetica Moderna.
La sua è una pittura di gesti. Il colore scivola sulla superficie impermeabile del supporto in modo potente e deciso, disegnando e perdendosi in rivoli con la complicità della lucentezza metallica. Le immagini che dipinge sono quel che sono, figure reali libere da qualunque struttura concettuale.
#3 Nicola Caredda
Nicola Caredda è nato a Cagliari nel 1981. Si forma all’Accademia di Belle Arti di Sassari e intraprende un percorso di ricerca pittorica indipendente e singolare, piuttosto appartato rispetto ai movimenti più frequentati dagli artisti locali della sua età.
Caredda trascende la realtà usando un linguaggio onirico-visionario, crea immagini ossessivamente dense di particolari che mescolano elementi provenienti da vocabolari espressivi lontani, producendo suggestioni esaltate da un’indecifrabile carica enigmatica.
TRIGU Lab, Cagliari, maggio/giugno 2013
#1 Vincenzo Pattusi
Vincenzo Pattusi, in arte LUDO 1948 è nato a Nuoro nel 1978, dopo la laurea in Storia dell’Arte e un master in conservazione e restauro, entra in contatto con l'ambiente artistico nuorese muovendo i primi passi nella street art e portando avanti un discorso pittorico che dai muri fa ritorno alla tele in studio in un gioco continuo di rimandi e citazioni. Ha eseguito diverse commissioni pubbliche e partecipato a numerose mostre in Italia e all’estero. Attualmente vive e lavora e Nuoro dove dal 2008 condivide con altri artisti il Seuna Lab, contenitore creativo per le sperimentazioni artistiche contemporanee.
Presenta una galleria di ritratti d’impostazione classica che si distacca dal suo originale e variopinto immaginario ispirato dalla street art. I soggetti sono piuttosto ricercati nella forma e hanno la capacità di evocare un passato sospeso nel tempo. Pattusi complica lievemente la realtà offrendo cercando spunti narrativi nei dettagli dei volti e delle vesti dei personaggi ritratti, alimentando così la scena di una sottile ambiguità.
#2 Narcisa Monni
Narcisa Monni è nata ad Alghero nel 1981, si forma all’Accademia di Belle Arti di Sassari e inizia un singolare percorso artistico che, servendosi della fotografia e dell’installazione, sperimenta il proprio corpo come medium di comunicazione e relazione col pubblico. Inizia a dipingere solo recentemente, proponendo uno stile fortemente gestuale e carico di tensioni. Vive e lavora a Sassari dove collabora con la Galleria L.E.M. Laboratorio Estetica Moderna.
La sua è una pittura di gesti. Il colore scivola sulla superficie impermeabile del supporto in modo potente e deciso, disegnando e perdendosi in rivoli con la complicità della lucentezza metallica. Le immagini che dipinge sono quel che sono, figure reali libere da qualunque struttura concettuale.
#3 Nicola Caredda
Nicola Caredda è nato a Cagliari nel 1981. Si forma all’Accademia di Belle Arti di Sassari e intraprende un percorso di ricerca pittorica indipendente e singolare, piuttosto appartato rispetto ai movimenti più frequentati dagli artisti locali della sua età.
Caredda trascende la realtà usando un linguaggio onirico-visionario, crea immagini ossessivamente dense di particolari che mescolano elementi provenienti da vocabolari espressivi lontani, producendo suggestioni esaltate da un’indecifrabile carica enigmatica.
Costantino Nivola per trent’anni professore Visiting tra Harvard, Berkeley e Columbia
Articolo pubblicato su Sardinews, Mensile di informazione socio economica, n. 3 - anno XIV - marzo 2013
January 31, 1978
Dear Mr. Wysocki,
It seems that mostly things have a tendency to happen at the right time. The invitation to come to Dartmouth College as resident next fall is agreeable and appropriate in time. I will be glad to come. I am enjoying my stay at Berkeley very much. I am becoming more and more convinced that the artist belong in the campus more than he does in the museum, considering that the art we produce is mainly didactic concerned with the process rather than with the result. I spent a few months at the American Academy in Rome again in Winter. It was pleasant as normal despite the chronic turmoils of Italian political unrest.
Looking forward to seeing you
Sincerely,
Costantino Nivola
Lecturer in Architecture
« Sembra che la maggior parte delle cose abbiano la tendenza di capitare al momento giusto”.
Con queste parole Costantino Nivola (Orani 1911, New York 1988), risponde alla proposta del direttore Mattew Wysocki per incontrare gli studenti del Dartmouth College , Hanover, New Hampshire.
E chiarisce: “L'invito a venire al Dartmouth College come Artist-in-Residence nel prossimo autunno è gradito e appropriato nel tempo. Sarò lieto di venire.
[…]Sto diventando sempre più convinto che sia il campus più del museo il posto giusto per l'artista, per il fatto che l'arte che produciamo sia in prevalenza didattica per il suo processo, piuttosto che nel risultato».
Mentre scrive, nel gennaio 1978, Nivola ha appena trascorso qualche mese artist-in-residence all’American Academy di Roma e sta completando un semestre accademico da visiting professor nel campus di Berkeley, Università della California.
Le parole di questo scritto riassumono felicemente la passione che Nivola ha riservato durante tutta la sua vita di artista al mondo accademico, nel corso di un’attività didattica più che trentennale che gli ha permesso di incontrare e coinvolgere studenti di tutto il mondo.
Il percorso di insegnante di Costantino Nivola è tra gli aspetti più interessanti e meno conosciuti delle vicende dell’artista, finora è rimasto marginale negli studi monografici sulla sua attività, eppure rappresenta un essenziale complemento per cercare di tracciare l’eredità culturale che la sua opera ha lasciato nell’arte e nell’architettura contemporanea.
L’artista di Orani, emigrato negli Stati Uniti dal 1939 con un diploma di Maestro d’arte conseguito nel 1936 all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, ha tenuto numerose conferenze e seminari, ha insegnato Disegno e Scultura e collaborato con prestigiose Università.
Tra il 1954 e il 1957 è stato visiting professor dell’Harvard Graduate School of Design di Cambridge giungendo a ricoprire il ruolo di Direttore del Design Workshop.
è stato responsabile dello studio di scultura alla Columbia University di New York dal 1961 al ’64.
Nel corso degli anni ha ricevuto numerosi inviti come artist-in-residence in molte Università degli Stati Uniti e altre istituzioni accademiche in Italia, Israele e Olanda.
Ha fatto parte del comitato per le selezioni dei candidati alle borse di studio indette dalla Commissione Fulbright per gli scambi culturali fra l'Italia e gli Stati Uniti.
Nel 1970 e nel 1973 ha insegnato al Carpenter Center for the Visual Arts dell’Università di Harvard.
è stato eletto membro (Fellow) dell’American Academy and Institute of Arts and Letters nel 1972 e membro onorario dell’Accademia di Belle Arti dell’Aja nel 1975.
Infine dal 1978 al 1982 ha insegnato scultura al campus di Berkeley, nell’Università della California.
***
Agli studenti che ha incontrato in giro per il mondo ha comunicato il suo straordinario modus operandi di scultore-costruttore, proponendo l’utilizzo dei materiali e delle tecniche che caratterizzano la sua produzione artistica: sabbia, gesso, cemento, argilla.
Con uno stile fuori dal comune, il suo carattere carismatico e la ricchezza delle sue conoscenze, ha indirizzato i giovani verso un modo nuovo di pensare, non solo per coltivare eventuali doti artistiche ma per rendere migliore la qualità professionale di qualsiasi lavoro avrebbero potuto svolgere in futuro, dall’arte alla progettazione architettonica.
Per i suoi studenti Costantino Nivola ha rappresentato un maestro nel senso più ampio del termine, una guida attenta che insegnando e operando, educa, infondendo passione per il proprio lavoro e indicando agli altri il cammino per diventare se stessi.
Nivola è stato un professore competente, saggio e molto esigente, eppure alla mano, capace di trasmettere curiosità ed energia con il candore di un bambino.
Ha incoraggiato gli studenti a leggere e partecipare a tutte le arti, il suo era un approccio multidisciplinare d’impronta Rinascimentale, egli era convinto che un solo aspetto delle arti visive non fosse sufficiente.
In un’epoca di specializzazione – sosteneva - un bravo scultore deve avere familiarità con le tradizioni dell’architettura e della pittura. Allo stesso modo gli architetti e gli urbanisti devono imparare a dipingere, a scolpire, a preparare il cemento, per lavorare in tutte le fasi della progettazione.
Agli allievi ha trasmesso un metodo in cui si incontravano proficuamente la manualità artigianale che da sempre gli apparteneva con la rigorosa lucidità analitica assimilata personalmente dalla frequentazione con Le Corbusier.
Nella pratica delle sue lezioni ha insegnato a combinare armoniosamente le esigenze espressive e le capacità razionali necessarie per dar forma all’opera d’arte considerando attentamente le caratteristiche e i limiti imposti dai materiali.
Durante la permanenza nei campus ha organizzato spesso mostre retrospettive dei propri lavori, occasioni che gli hanno permesso di presentare le esperienze di collaborazione con alcuni tra i maggiori architetti dell’epoca e di diffondere l’ideale civile e sociale che animava i suoi interventi per lo spazio pubblico: piazze, scuole, uffici, edifici istituzionali.
In numerose interviste raccolte tra i suoi ex studenti, anche a distanza di anni, Nivola viene ricordato per la sua personalità affascinante, lo sguardo luminoso, la capacità di meravigliarsi, l’innata curiosità e la sua capacità di conquistarsi la stima e la simpatia di tutti grazie alla spontanea attitudine di considerare la realtà con senso dell'umorismo.
Il ricordo di chi lo ha conosciuto nel ruolo di insegnante è spesso costellato da vivaci aneddoti, come quella volta, divenuta leggenda, che decise di concludere il seminario all’Università della California nel 1978 arrostendo un porcetto alla brace nel cortile interno del campus di Berkeley.
Secondo il rito classico della cucina pastorale sarda, Nivola cucinò un maialino da latte per l’intera comunità universitaria, regalando a studenti, professori e personale della segreteria, una memorabile giornata in cui fu il personaggio principale di una festa rustica e primitiva.
L’emozione restò così vivace tra i partecipanti che l’anno successivo l’esperienza fu ripetuta per celebrare il suo ritorno nel semestre invernale!
A confronto con gli studenti Costantino Nivola si poneva nel modo più naturale, un uomo sensibile e appassionato, nell’arte come nelle relazioni sociali, capace di infondere valore estetico a tutti i momenti della giornata. Arte e vita per lui erano una sola cosa.
***
«Non sono mai andato a scuola, è per questo che mi piace insegnare».
C.Nivola, 1954
La prima occasione di avvicinarsi agli studenti universitari gli viene offerta dall’amico Josep Lluís Sert, architetto di origine catalana, urbanista e insegnante nonché preside della Graduate School of Design, della Harvard University, che propose a Nivola l’incarico di Instructor in Design per un anno a partire dal 1954.
Il riferimento principale del corso che Nivola propose agli allievi della Graduate School of Design era la lezione che lui stesso apprese direttamente da Le Corbusier.
L’Architetto svizzero ha condiviso con Nivola lo studio nell’8° Strada del Greenwhich Village di New York dal 1946 al ‘50, ha trascorso molto del suo tempo libero circondato dall’affetto di Costantino, della moglie Ruth e del piccolo figlio Pietro, ma soprattutto, ha offerto al giovane sardo i preziosi consigli di un maestro premuroso.
L’incontro e la frequentazione con Le Corbusier rappresentano un’esperienza determinante nella formazione del giovane Nivola e sanciscono per lui non solo lo sviluppo di una sensibilità architettonica e spaziale, ma l’apprendimento di una disciplina analitica fondata su una costante e attenta osservazione della realtà.
Quando nel 1954 ricevette il primo incarico a Harvard, Nivola porta con sé la consapevolezza dell’importanza del disegno come strumento per esplorare nuove possibilità di osservazione e interpretazione della realtà.
Fin dalle prime lezioni, Nivola esorta gli studenti a esercitarsi nel disegno in una pratica quotidiana con spirito di esplorazione e di scoperta. Mostra agli allievi i propri quaderni di schizzi, riempiti principalmente di disegni al tratto e cita l’esempio di Le Corbusier, che incessantemente annotava appunti visivi nei propri sketchbooks, perchè «bisogna avere sempre le tasche piene», diceva, «è inutile affrontare il tavolo da disegno in studio con le tasche vuote».
Nivola chiarisce ai suoi studenti che il suo non è un corso d’arte, né ha come fine la ricerca di un’espressione artistica personale. Gli esercizi che assegna e le abitudini che raccomanda, indipendentemente dal talento individuale o dalle future scelte professionali degli allievi, costituiscono una base per imparare a vedere, per armonizzare l’uso delle mani e quello dello sguardo.
Tra i suoi studenti a Harvard ci sono anche il futuro architetto e collaboratore Peter Chermayeff (che nel 1995 sarà il progettista del Museo dedicato a Nivola di Orani) e Richard Bender, che negli anni Settanta e Ottanta diventerà professore di Architettura, nonché preside del Carpenter Center for Environmental Design Research, University of California, Berkeley.
L’Università di Harvard apprezzò l’operato di Nivola al punto che nel maggio 1956 venne nominato Direttore del laboratorio di progettazione (Director of Design Workshop)
Tuttavia alla fine dell’anno accademico 1956/’57 Costantino Nivola decise di lasciare la direzione del Design Workshop per dedicarsi a tempo pieno al lavoro d’artista.
Cercare di conciliare gli impegni che lo vedevano spesso occupato in importanti commissioni pubbliche con il piacere di stare tra gli studenti, è stata una condizione che dovette affrontare più volte nel corso della sua vita, e purtroppo, sempre a sacrificio dell’attività didattica.
Durante l’estate del 1957 dunque Nivola si impegnò nell’esecuzione della più impegnativa opera mai realizzata. Il grande giardino della sua casa e studio di Long Island negli Hamptons di New York si trasformò in un cantiere per la realizzazione dei 300 metri quadrati del bassorilievo per il palazzo Mutual Hartford Insurance Company.
Lo scultore propose ad uno dei suoi studenti più promettenti, Peter Chermayeff, di assisterlo nell’esecuzione di questo progetto.
L’opera fu completata in soli 37 giorni a partire dal 1° agosto 1957 e venne firmata in questo modo: “Costantino Nivola, scultore, muratore, manovale”
This sculpture is made of indestructible material and is dedicated to that segment of humanity which is dedicated to the task of building nuraghi of permanent significance which will withstand the destructive follies of men and the blind rages of nature.
This sculpture was made and conceived in a year of scattered violence and or turbulence of revolt and ruthless' suppression, of prejudice, or complacency of hope, of painful decision within the framework of a new atomic world.
(I documenti citati sono tratti dal fondo “Costantino Nivola Papers” conservato presso l’Archives of American Art, Smithsonian Istitution di Washington).
Articolo pubblicato su Sardinews, Mensile di informazione socio economica, n. 3 - anno XIV - marzo 2013
January 31, 1978
Dear Mr. Wysocki,
It seems that mostly things have a tendency to happen at the right time. The invitation to come to Dartmouth College as resident next fall is agreeable and appropriate in time. I will be glad to come. I am enjoying my stay at Berkeley very much. I am becoming more and more convinced that the artist belong in the campus more than he does in the museum, considering that the art we produce is mainly didactic concerned with the process rather than with the result. I spent a few months at the American Academy in Rome again in Winter. It was pleasant as normal despite the chronic turmoils of Italian political unrest.
Looking forward to seeing you
Sincerely,
Costantino Nivola
Lecturer in Architecture
« Sembra che la maggior parte delle cose abbiano la tendenza di capitare al momento giusto”.
Con queste parole Costantino Nivola (Orani 1911, New York 1988), risponde alla proposta del direttore Mattew Wysocki per incontrare gli studenti del Dartmouth College , Hanover, New Hampshire.
E chiarisce: “L'invito a venire al Dartmouth College come Artist-in-Residence nel prossimo autunno è gradito e appropriato nel tempo. Sarò lieto di venire.
[…]Sto diventando sempre più convinto che sia il campus più del museo il posto giusto per l'artista, per il fatto che l'arte che produciamo sia in prevalenza didattica per il suo processo, piuttosto che nel risultato».
Mentre scrive, nel gennaio 1978, Nivola ha appena trascorso qualche mese artist-in-residence all’American Academy di Roma e sta completando un semestre accademico da visiting professor nel campus di Berkeley, Università della California.
Le parole di questo scritto riassumono felicemente la passione che Nivola ha riservato durante tutta la sua vita di artista al mondo accademico, nel corso di un’attività didattica più che trentennale che gli ha permesso di incontrare e coinvolgere studenti di tutto il mondo.
Il percorso di insegnante di Costantino Nivola è tra gli aspetti più interessanti e meno conosciuti delle vicende dell’artista, finora è rimasto marginale negli studi monografici sulla sua attività, eppure rappresenta un essenziale complemento per cercare di tracciare l’eredità culturale che la sua opera ha lasciato nell’arte e nell’architettura contemporanea.
L’artista di Orani, emigrato negli Stati Uniti dal 1939 con un diploma di Maestro d’arte conseguito nel 1936 all’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche di Monza, ha tenuto numerose conferenze e seminari, ha insegnato Disegno e Scultura e collaborato con prestigiose Università.
Tra il 1954 e il 1957 è stato visiting professor dell’Harvard Graduate School of Design di Cambridge giungendo a ricoprire il ruolo di Direttore del Design Workshop.
è stato responsabile dello studio di scultura alla Columbia University di New York dal 1961 al ’64.
Nel corso degli anni ha ricevuto numerosi inviti come artist-in-residence in molte Università degli Stati Uniti e altre istituzioni accademiche in Italia, Israele e Olanda.
Ha fatto parte del comitato per le selezioni dei candidati alle borse di studio indette dalla Commissione Fulbright per gli scambi culturali fra l'Italia e gli Stati Uniti.
Nel 1970 e nel 1973 ha insegnato al Carpenter Center for the Visual Arts dell’Università di Harvard.
è stato eletto membro (Fellow) dell’American Academy and Institute of Arts and Letters nel 1972 e membro onorario dell’Accademia di Belle Arti dell’Aja nel 1975.
Infine dal 1978 al 1982 ha insegnato scultura al campus di Berkeley, nell’Università della California.
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Agli studenti che ha incontrato in giro per il mondo ha comunicato il suo straordinario modus operandi di scultore-costruttore, proponendo l’utilizzo dei materiali e delle tecniche che caratterizzano la sua produzione artistica: sabbia, gesso, cemento, argilla.
Con uno stile fuori dal comune, il suo carattere carismatico e la ricchezza delle sue conoscenze, ha indirizzato i giovani verso un modo nuovo di pensare, non solo per coltivare eventuali doti artistiche ma per rendere migliore la qualità professionale di qualsiasi lavoro avrebbero potuto svolgere in futuro, dall’arte alla progettazione architettonica.
Per i suoi studenti Costantino Nivola ha rappresentato un maestro nel senso più ampio del termine, una guida attenta che insegnando e operando, educa, infondendo passione per il proprio lavoro e indicando agli altri il cammino per diventare se stessi.
Nivola è stato un professore competente, saggio e molto esigente, eppure alla mano, capace di trasmettere curiosità ed energia con il candore di un bambino.
Ha incoraggiato gli studenti a leggere e partecipare a tutte le arti, il suo era un approccio multidisciplinare d’impronta Rinascimentale, egli era convinto che un solo aspetto delle arti visive non fosse sufficiente.
In un’epoca di specializzazione – sosteneva - un bravo scultore deve avere familiarità con le tradizioni dell’architettura e della pittura. Allo stesso modo gli architetti e gli urbanisti devono imparare a dipingere, a scolpire, a preparare il cemento, per lavorare in tutte le fasi della progettazione.
Agli allievi ha trasmesso un metodo in cui si incontravano proficuamente la manualità artigianale che da sempre gli apparteneva con la rigorosa lucidità analitica assimilata personalmente dalla frequentazione con Le Corbusier.
Nella pratica delle sue lezioni ha insegnato a combinare armoniosamente le esigenze espressive e le capacità razionali necessarie per dar forma all’opera d’arte considerando attentamente le caratteristiche e i limiti imposti dai materiali.
Durante la permanenza nei campus ha organizzato spesso mostre retrospettive dei propri lavori, occasioni che gli hanno permesso di presentare le esperienze di collaborazione con alcuni tra i maggiori architetti dell’epoca e di diffondere l’ideale civile e sociale che animava i suoi interventi per lo spazio pubblico: piazze, scuole, uffici, edifici istituzionali.
In numerose interviste raccolte tra i suoi ex studenti, anche a distanza di anni, Nivola viene ricordato per la sua personalità affascinante, lo sguardo luminoso, la capacità di meravigliarsi, l’innata curiosità e la sua capacità di conquistarsi la stima e la simpatia di tutti grazie alla spontanea attitudine di considerare la realtà con senso dell'umorismo.
Il ricordo di chi lo ha conosciuto nel ruolo di insegnante è spesso costellato da vivaci aneddoti, come quella volta, divenuta leggenda, che decise di concludere il seminario all’Università della California nel 1978 arrostendo un porcetto alla brace nel cortile interno del campus di Berkeley.
Secondo il rito classico della cucina pastorale sarda, Nivola cucinò un maialino da latte per l’intera comunità universitaria, regalando a studenti, professori e personale della segreteria, una memorabile giornata in cui fu il personaggio principale di una festa rustica e primitiva.
L’emozione restò così vivace tra i partecipanti che l’anno successivo l’esperienza fu ripetuta per celebrare il suo ritorno nel semestre invernale!
A confronto con gli studenti Costantino Nivola si poneva nel modo più naturale, un uomo sensibile e appassionato, nell’arte come nelle relazioni sociali, capace di infondere valore estetico a tutti i momenti della giornata. Arte e vita per lui erano una sola cosa.
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«Non sono mai andato a scuola, è per questo che mi piace insegnare».
C.Nivola, 1954
La prima occasione di avvicinarsi agli studenti universitari gli viene offerta dall’amico Josep Lluís Sert, architetto di origine catalana, urbanista e insegnante nonché preside della Graduate School of Design, della Harvard University, che propose a Nivola l’incarico di Instructor in Design per un anno a partire dal 1954.
Il riferimento principale del corso che Nivola propose agli allievi della Graduate School of Design era la lezione che lui stesso apprese direttamente da Le Corbusier.
L’Architetto svizzero ha condiviso con Nivola lo studio nell’8° Strada del Greenwhich Village di New York dal 1946 al ‘50, ha trascorso molto del suo tempo libero circondato dall’affetto di Costantino, della moglie Ruth e del piccolo figlio Pietro, ma soprattutto, ha offerto al giovane sardo i preziosi consigli di un maestro premuroso.
L’incontro e la frequentazione con Le Corbusier rappresentano un’esperienza determinante nella formazione del giovane Nivola e sanciscono per lui non solo lo sviluppo di una sensibilità architettonica e spaziale, ma l’apprendimento di una disciplina analitica fondata su una costante e attenta osservazione della realtà.
Quando nel 1954 ricevette il primo incarico a Harvard, Nivola porta con sé la consapevolezza dell’importanza del disegno come strumento per esplorare nuove possibilità di osservazione e interpretazione della realtà.
Fin dalle prime lezioni, Nivola esorta gli studenti a esercitarsi nel disegno in una pratica quotidiana con spirito di esplorazione e di scoperta. Mostra agli allievi i propri quaderni di schizzi, riempiti principalmente di disegni al tratto e cita l’esempio di Le Corbusier, che incessantemente annotava appunti visivi nei propri sketchbooks, perchè «bisogna avere sempre le tasche piene», diceva, «è inutile affrontare il tavolo da disegno in studio con le tasche vuote».
Nivola chiarisce ai suoi studenti che il suo non è un corso d’arte, né ha come fine la ricerca di un’espressione artistica personale. Gli esercizi che assegna e le abitudini che raccomanda, indipendentemente dal talento individuale o dalle future scelte professionali degli allievi, costituiscono una base per imparare a vedere, per armonizzare l’uso delle mani e quello dello sguardo.
Tra i suoi studenti a Harvard ci sono anche il futuro architetto e collaboratore Peter Chermayeff (che nel 1995 sarà il progettista del Museo dedicato a Nivola di Orani) e Richard Bender, che negli anni Settanta e Ottanta diventerà professore di Architettura, nonché preside del Carpenter Center for Environmental Design Research, University of California, Berkeley.
L’Università di Harvard apprezzò l’operato di Nivola al punto che nel maggio 1956 venne nominato Direttore del laboratorio di progettazione (Director of Design Workshop)
Tuttavia alla fine dell’anno accademico 1956/’57 Costantino Nivola decise di lasciare la direzione del Design Workshop per dedicarsi a tempo pieno al lavoro d’artista.
Cercare di conciliare gli impegni che lo vedevano spesso occupato in importanti commissioni pubbliche con il piacere di stare tra gli studenti, è stata una condizione che dovette affrontare più volte nel corso della sua vita, e purtroppo, sempre a sacrificio dell’attività didattica.
Durante l’estate del 1957 dunque Nivola si impegnò nell’esecuzione della più impegnativa opera mai realizzata. Il grande giardino della sua casa e studio di Long Island negli Hamptons di New York si trasformò in un cantiere per la realizzazione dei 300 metri quadrati del bassorilievo per il palazzo Mutual Hartford Insurance Company.
Lo scultore propose ad uno dei suoi studenti più promettenti, Peter Chermayeff, di assisterlo nell’esecuzione di questo progetto.
L’opera fu completata in soli 37 giorni a partire dal 1° agosto 1957 e venne firmata in questo modo: “Costantino Nivola, scultore, muratore, manovale”
This sculpture is made of indestructible material and is dedicated to that segment of humanity which is dedicated to the task of building nuraghi of permanent significance which will withstand the destructive follies of men and the blind rages of nature.
This sculpture was made and conceived in a year of scattered violence and or turbulence of revolt and ruthless' suppression, of prejudice, or complacency of hope, of painful decision within the framework of a new atomic world.
(I documenti citati sono tratti dal fondo “Costantino Nivola Papers” conservato presso l’Archives of American Art, Smithsonian Istitution di Washington).
CRISALIDE, personale di Federico Carta
Studio LIXI, Cagliari, dicembre 2012
"Una città infelice può contenere, magari solo per un istante, una città felice; le città future sono già contenute nelle presenti come insetti nella crisalide" Italo Calvino, Le città invisibili
Tra asfalto e ruggine, Federico Carta, ci conduce in un viaggio visionario che invita ad andare oltre, ad essere curiosi. Una spinta di curiosità per trovare le storie che si rivelano tra i panni stesi, per scoprire gli incontri che si consumano in periferia, per sentire i muri che parlano e i silenzi della città. L’atmosfera poetica è quella urbana, le storie che si raccontano parlano della desolazione dell’ambiente naturale e delle fragilità del grande sistema metropoli.
Città distrutte e città del futuro, in cui la natura invadente sembra riprendersi la città, farsi a sua volta città. Una forza che invita a r-esistere in attesa di un mondo che deve ancora nascere. Tuttavia nella raffigurazione di questa inesorabile rovina non ci sono elementi drammatici che evocano l’allarme, non c’è tragedia, anzi tra i segni oscuri si avverte la presenza della vita come la parte più luminosa nella crisi della società urbana.
Studio LIXI, Cagliari, dicembre 2012
"Una città infelice può contenere, magari solo per un istante, una città felice; le città future sono già contenute nelle presenti come insetti nella crisalide" Italo Calvino, Le città invisibili
Tra asfalto e ruggine, Federico Carta, ci conduce in un viaggio visionario che invita ad andare oltre, ad essere curiosi. Una spinta di curiosità per trovare le storie che si rivelano tra i panni stesi, per scoprire gli incontri che si consumano in periferia, per sentire i muri che parlano e i silenzi della città. L’atmosfera poetica è quella urbana, le storie che si raccontano parlano della desolazione dell’ambiente naturale e delle fragilità del grande sistema metropoli.
Città distrutte e città del futuro, in cui la natura invadente sembra riprendersi la città, farsi a sua volta città. Una forza che invita a r-esistere in attesa di un mondo che deve ancora nascere. Tuttavia nella raffigurazione di questa inesorabile rovina non ci sono elementi drammatici che evocano l’allarme, non c’è tragedia, anzi tra i segni oscuri si avverte la presenza della vita come la parte più luminosa nella crisi della società urbana.
Chiaroscuri nella maternità, personale di Gisella Congia
Centro Polivalente Monteclaro, Cagliari, settembre/ottobre 2011
La forza emotiva dell’immagine.
Il progetto di Gisella Congia è un intenso dialogo con altre madri e queste fotografie sono lo strumento per raccontare il viaggio intimo che hanno condiviso insieme.
Il prologo ha per personaggio principale una donna in attesa, bellissima e luminosa come solo una gestante può apparire. Il suo sguardo contempla lontano. Una visione serena e di speranza che si specchia nell’infinito dell’orizzonte.
Nelle immagini che seguono i protagonisti sono i figli, ma il soggetto dei ritratti sono prima di tutto le emozioni e le angosce di ogni madre.
Inquietudini di cui spesso è difficile persino parlare.
Ciascuno scatto è la proiezione di un sentimento a cui le donne raffigurate danno corpo e senso.
Gisella Congia suggerisce le controverse emozioni che soltanto una madre conosce servendosi di toni scarichi, delicatamente sommessi per svelare la fragilità di queste donne abbattute, sfinite, scoraggiate.
Le fotografie oltrepassano sottilmente il confine tra realtà e finzione mettendo in scena con inesorabile accuratezza una dimensione esistenziale comune a molte altre madri.
Centro Polivalente Monteclaro, Cagliari, settembre/ottobre 2011
La forza emotiva dell’immagine.
Il progetto di Gisella Congia è un intenso dialogo con altre madri e queste fotografie sono lo strumento per raccontare il viaggio intimo che hanno condiviso insieme.
Il prologo ha per personaggio principale una donna in attesa, bellissima e luminosa come solo una gestante può apparire. Il suo sguardo contempla lontano. Una visione serena e di speranza che si specchia nell’infinito dell’orizzonte.
Nelle immagini che seguono i protagonisti sono i figli, ma il soggetto dei ritratti sono prima di tutto le emozioni e le angosce di ogni madre.
Inquietudini di cui spesso è difficile persino parlare.
Ciascuno scatto è la proiezione di un sentimento a cui le donne raffigurate danno corpo e senso.
Gisella Congia suggerisce le controverse emozioni che soltanto una madre conosce servendosi di toni scarichi, delicatamente sommessi per svelare la fragilità di queste donne abbattute, sfinite, scoraggiate.
Le fotografie oltrepassano sottilmente il confine tra realtà e finzione mettendo in scena con inesorabile accuratezza una dimensione esistenziale comune a molte altre madri.
FINE, personale di Federico Carta
Studio LIXI, Cagliari, novembre 2010
Lo scenario in cui tutto accade è un luogo simbolico, un territorio di confine dominato dal vuoto, uno spazio sospeso in cui l’opera respira e prende vita. Federico Carta recupera materiali segnati dal tempo: lamiere arrugginite, pareti di muri scrostati e superfici deteriorate in cui rappresenta immagini di segni sociali, di incontri e di presenze vitali. Lo sguardo si perde nella superficie seguendo variazioni di intensità del colore e della luce, scoprendo la materia e la sua alterazione naturale, avvistando sogni e simboli dello straordinario immaginario poetico dell’artista, presenze di vibrante forza espressiva. La leggerezza in cui fluttuano le figure consolida la forza del gesto, un forte segno inciso segue il contorno dell’immagine, ne disegna il limite, è l’immagine stessa. Si resta coinvolti in un tempo assoluto, in partenza per un viaggio oltre lo spazio, migranti o esploratori alla scoperta di mondi nuovi.
Federico Carta (Cagliari,1984) ha raggiunto una maturità espressiva ma conserva dentro di sé lo stupore di un bambino, cioè la curiosità di conoscere, la voglia di comunicare. Nelle sue pitture mescola con sorprendente vivacità istinto e gioco. Artista urbano, amante del paesaggio naturale, è affascinato dai colori e dalle stranezze. Con la pittura trova il modo di raccontare un mondo in cui si fondono le inquietudini della modernità e la sua passione per la vita. Le linee che traccia inventano immagini che sono espressione di semplicità e essenzialità. Osserva il mondo con ritmo lento e lo rappresenta con spirito visionario, con la stessa leggerezza che suggeriscono gli occhi delle colorate balene in sospensione che ha dipinto nei muri della sua città. Ogni sua mostra è un viaggio, un’escursione compiuta nei territori dell’immaginazione. Ciascuna opera è gesto, è sguardo, è respiro, è un piccolo universo manifestato con l’interesse di chi sa dare valore alle cose semplici.
Studio LIXI, Cagliari, novembre 2010
Lo scenario in cui tutto accade è un luogo simbolico, un territorio di confine dominato dal vuoto, uno spazio sospeso in cui l’opera respira e prende vita. Federico Carta recupera materiali segnati dal tempo: lamiere arrugginite, pareti di muri scrostati e superfici deteriorate in cui rappresenta immagini di segni sociali, di incontri e di presenze vitali. Lo sguardo si perde nella superficie seguendo variazioni di intensità del colore e della luce, scoprendo la materia e la sua alterazione naturale, avvistando sogni e simboli dello straordinario immaginario poetico dell’artista, presenze di vibrante forza espressiva. La leggerezza in cui fluttuano le figure consolida la forza del gesto, un forte segno inciso segue il contorno dell’immagine, ne disegna il limite, è l’immagine stessa. Si resta coinvolti in un tempo assoluto, in partenza per un viaggio oltre lo spazio, migranti o esploratori alla scoperta di mondi nuovi.
Federico Carta (Cagliari,1984) ha raggiunto una maturità espressiva ma conserva dentro di sé lo stupore di un bambino, cioè la curiosità di conoscere, la voglia di comunicare. Nelle sue pitture mescola con sorprendente vivacità istinto e gioco. Artista urbano, amante del paesaggio naturale, è affascinato dai colori e dalle stranezze. Con la pittura trova il modo di raccontare un mondo in cui si fondono le inquietudini della modernità e la sua passione per la vita. Le linee che traccia inventano immagini che sono espressione di semplicità e essenzialità. Osserva il mondo con ritmo lento e lo rappresenta con spirito visionario, con la stessa leggerezza che suggeriscono gli occhi delle colorate balene in sospensione che ha dipinto nei muri della sua città. Ogni sua mostra è un viaggio, un’escursione compiuta nei territori dell’immaginazione. Ciascuna opera è gesto, è sguardo, è respiro, è un piccolo universo manifestato con l’interesse di chi sa dare valore alle cose semplici.
Nascosti tra le foglie, personale di Danila Meloni
Galleria S'Umbra, Cagliari, aprile 2010
Danila Meloni concentra l’attenzione della ripresa fotografica sull’interiorità profonda del suo animo per catturare, nascosti tra le foglie, presenze e forme dotate di vita. Esseri viventi che scaturiscono da un’esperienza emozionale vissuta nel bosco, presenze che l’artista incontra e osserva confuse tra la macchia e le fronde. L’incontro non è immediato perché non basta guardare, bisogna ritrovare il loro linguaggio, anche se non lo comprendiamo a fondo.
Le immagini svelano visioni, esseri-guerrieri dotati di fisionomie proprie e forte personalità, la cui natura non appartiene a questo mondo.
La fotografia in questo caso non è uno strumento tecnico di ripresa della realtà ma diventa capace di delineare mondi del tutto immaginari.
..
La tecnica del foto-disegno adoperata dall’artista respinge l’impressione oggettiva del mezzo fotografico e l’immagine si genera in base a percezioni psichiche più complesse.
L’esito sono una galleria di ritratti stampati manualmente in cui risalta una deformazione di alcuni aspetti della realtà colta dall’obbiettivo.
La tecnica prevede un trattamento manuale del processo di stampa in camera oscura per mezzo di pennellate precise che delineano e rivelano esclusivamente alcuni frammenti trasfigurati dell’immagine.
Successivamente Danila Meloni interviene con mezzi pittorici per accordarsi con la luce dell’immagine fotografica e per aiutare a manifestarsi ai nostri occhi ciò che non è immediatamente evidente.
Galleria S'Umbra, Cagliari, aprile 2010
Danila Meloni concentra l’attenzione della ripresa fotografica sull’interiorità profonda del suo animo per catturare, nascosti tra le foglie, presenze e forme dotate di vita. Esseri viventi che scaturiscono da un’esperienza emozionale vissuta nel bosco, presenze che l’artista incontra e osserva confuse tra la macchia e le fronde. L’incontro non è immediato perché non basta guardare, bisogna ritrovare il loro linguaggio, anche se non lo comprendiamo a fondo.
Le immagini svelano visioni, esseri-guerrieri dotati di fisionomie proprie e forte personalità, la cui natura non appartiene a questo mondo.
La fotografia in questo caso non è uno strumento tecnico di ripresa della realtà ma diventa capace di delineare mondi del tutto immaginari.
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La tecnica del foto-disegno adoperata dall’artista respinge l’impressione oggettiva del mezzo fotografico e l’immagine si genera in base a percezioni psichiche più complesse.
L’esito sono una galleria di ritratti stampati manualmente in cui risalta una deformazione di alcuni aspetti della realtà colta dall’obbiettivo.
La tecnica prevede un trattamento manuale del processo di stampa in camera oscura per mezzo di pennellate precise che delineano e rivelano esclusivamente alcuni frammenti trasfigurati dell’immagine.
Successivamente Danila Meloni interviene con mezzi pittorici per accordarsi con la luce dell’immagine fotografica e per aiutare a manifestarsi ai nostri occhi ciò che non è immediatamente evidente.
PIANTE, personale di Federico Carta
galleria Espace S&P, Cagliari, dicembre 2009
E’ passato un anno dall’inizio del suo avventuroso viaggio alla scoperta di altri mondi (Mostra «mondi e polline»), l’artista decide di fermarsi nel pianeta delle PIANTE, dove all’ombra di un carciofo gigantesco nascono altri sogni. In quest’occasione le piante sono cresciute dove la città e la discarica hanno lasciato uno spazio. In una dimensione altra che evoca il baobab del «Piccolo Principe», Madre Natura fiorisce vigorosa e vitale. Piante robuste come pale eoliche con fiori spinosi che si aprono orgogliosi, oppure esili steli che si innalzano spavaldi spalancando gli occhi. Come un cosmonauta l’artista visita la terra, e come un esploratore ne scopre le forme inosservate prima, descrive una natura che appartiene a pianeti sconosciuti. C’è molta energia nei dipinti, c’è aria, ossigeno, acqua. Una forza naturale che sovrasta tutto l’intorno. Il tema di fondo è il rapporto con la natura, da sempre elemento fondamentale nella sua estetica. Fiori e piante possiedono un'anima, soggetti degni di veri e propri ritratti e non solo puro elemento decorativo. Federico Carta racconta attraverso le sue immagini la profonda trasformazione ambientale tracciando i nuovi simboli portati dalla modernità. Indica la transitorietà delle cose e interpreta una natura che, nonostante tutto, continua a resistere.
galleria Espace S&P, Cagliari, dicembre 2009
E’ passato un anno dall’inizio del suo avventuroso viaggio alla scoperta di altri mondi (Mostra «mondi e polline»), l’artista decide di fermarsi nel pianeta delle PIANTE, dove all’ombra di un carciofo gigantesco nascono altri sogni. In quest’occasione le piante sono cresciute dove la città e la discarica hanno lasciato uno spazio. In una dimensione altra che evoca il baobab del «Piccolo Principe», Madre Natura fiorisce vigorosa e vitale. Piante robuste come pale eoliche con fiori spinosi che si aprono orgogliosi, oppure esili steli che si innalzano spavaldi spalancando gli occhi. Come un cosmonauta l’artista visita la terra, e come un esploratore ne scopre le forme inosservate prima, descrive una natura che appartiene a pianeti sconosciuti. C’è molta energia nei dipinti, c’è aria, ossigeno, acqua. Una forza naturale che sovrasta tutto l’intorno. Il tema di fondo è il rapporto con la natura, da sempre elemento fondamentale nella sua estetica. Fiori e piante possiedono un'anima, soggetti degni di veri e propri ritratti e non solo puro elemento decorativo. Federico Carta racconta attraverso le sue immagini la profonda trasformazione ambientale tracciando i nuovi simboli portati dalla modernità. Indica la transitorietà delle cose e interpreta una natura che, nonostante tutto, continua a resistere.
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